Laura Fontana e "Gli italiani ad Auschwitz"

Ci sono voluti anni di ricerche negli archivi italiani, tedeschi e polacchi: ma Laura Fontana, che dal 1990 si occupa di storia della Shoah ed è responsabile per l’Italia del “Mémorial de la Shoah” di Parigi, nonché dell’Attività di educazione alla memoria del Comune di Rimini, ha dato alle stampe e presenta giovedì 14 ottobre al Salone del Libro di Torino “Gli Italiani ad Auschwitz (1943-45). Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime.

Il libro, oltre 500 pagine basate su fonti scritte e orali, interviste, testimonianze, registri degli archivi dei lager, liste di trasporto, richieste di indennizzo, fotografie, fornisce un punto di vista nuovo su Auschwitz, campo di sterminio ma anche galassia ben organizzata di attività industriali e agricole. E soprattutto apre prospettive inedite sui 7.800 italiani ebrei e sui 1.200 non ebrei, prevalentemente donne, che vi furono deportati principalmente tra l’autunno 1943 e gli ultimi mesi del 1944. Per questo “Gli Italiani ad Auschwitz” è il primo libro di un’autrice non polacca a venire pubblicato dall’Auschwitz Memorial – Muzeum Auschwitz.

«L’enormità del crimine e dei numeri – chiarisce la studiosa – tende paradossalmente a spersonalizzare e a farci dimenticare nomi, storie, vite… Auschwitz infatti, con circa 40 sotto-campi alle dipendenze, dal 1943 diventa una struttura dalle molte funzioni delle quali una è lo sterminio degli ebrei, italiani e non, ma ugualmente importante è lo sfruttamento del lavoro dei “politici” per il funzionamento delle industrie».

A volte si tende e ignorare questo secondo aspetto.

«Il sito rispondeva però a diverse politiche, e infatti mentre gli ebrei venivano portati qui per gruppi familiari, per sterminarli, i “triangoli rossi”, i politici, venivano arrestati nominalmente. Io ho cercato allora di far emergere all’interno del quadro storico la narrazione delle singole vicende: quelle dei medici italiani, fra cui 4 donne, che lavoravano nelle infermerie del campo e la cui testimonianza è indispensabile per capire come le cose funzionassero. O i bambini: pochissimi i non ebrei ad Auschwitz, mentre furono 776 quelli ebrei sotto i 14 anni catturati in Italia e a Rodi. Di questi sopravvissero solo 25, e fra loro le più piccole, le sorelle Bucci, la cui foto è in copertina: i bambini erano “inabili”, inutili per qualsiasi impiego e questo equivaleva a una condanna a morte. I 25 si salvarono o perché ebrei “misti”, o battezzati o semplicemente per caso: come Luigi Ferri, uno dei primi testimoni al mondo su Auschwitz. Catturato con la nonna ebrea, un medico ebreo del campo riuscì a nasconderlo fino alla liberazione».

Nel suo libro si parla molto delle deportate italiane.

«Circa mille: donne incinte come Aurelia Gregori che partorisce nel campo ed è una delle pochissime a sopravvivere con la sua bambina. Mi concentro anche sulle giovanissime staffette partigiane, e sulle operaie di cui ancora nessuno aveva raccontato: 40 lavoratrici fra i 16 e i 30 anni catturate nelle maggiori industrie della Lombardia dopo lo sciopero del marzo 1944. E non è chiaro perché vengano portate ad Auschwitz, anzi a Birchenau a pochi metri dai forni, visto che i campi femminili erano altri. Parlo anche delle donne prese nelle zone slovena e croata “italianizzate”: le loro deposizioni sarebbero state fondamentali, ma alla fine della guerra non vennero acquisite dalle autorità italiane perché nelle lingue d’origine, e neppure quelle delle operaie lombarde ebbero il peso che meritavano».

C’è ancora tanto da chiarire, insomma.

«Dal canto mio, ho cercato di contribuire a ridisegnare una storia corale, plurale, fatta di vicende diverse, da cui emerge la distinzione netta fra campo di sterminio e campo di concentramento a scopo industriale. In quest’ottica, tanti italiani non ebrei si trovarono ad Auschwitz per ragioni “comprensibili” nella logica nazista, per altri invece posso solo formulare ipotesi».

Grande Storia e storie personali, quindi.

«E la necessità di immergersi nell’orrore, con fatica e dolore, ma sotto il segno di un dovere morale».

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