Laura Curino in scena a Gambettola con il suo "Olivetti"

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È una storia di fine Ottocento di larghe vedute che nasce in provincia e lì si ferma cresce, conquista il mondo. È una storia anche folle che si nutre di istinto, di ingegno, di passione. È la storia di Camillo Olivetti (1868-1943) il pioniere che fondò in Italia l’azienda di macchine da scrivere, prima di cedere il timone al figlio Adriano che avrebbe reso la Olivetti esemplare tra le fabbriche, modello studiato nelle università del mondo.

A questa storia di industria che unisce innovazione e umanità, si aggiunge un’altra storia più piccola, apparentemente di minore utilità sociale; ma anche questa nata da passione, ingegno, visionarietà, capace di raccontare le storie degli altri per riflettere su di noi. È la storia di Teatro Settimo, nato nell’omonima località di Settimo Torinese, hinterland della città della Fiat. Una storia questa attraversata da Laura Curino (1956) attrice, autrice, regista, che ridà voce a “Olivetti”, il monologo e cavallo di battaglia fiorito nel 1996. L’invito ad ascoltare o a riascoltare questa bella storia italiana è per stasera alle 21 al teatro Comunale di Gambettola. “Olivetti” è considerato uno dei testi di riferimento del cosiddetto “teatro di narrazione” di Teatro Settimo, collettivo che ebbe un riferimento in Gabriele Vacis, ma che nacque da un gruppo di ragazzi adolescenti che negli anni Settanta decisero di volere giocare al teatro per sempre.

Andò proprio così, Curino, la nascita di Teatro Settimo?

«Più o meno; conosco Gabriele Vacis da quando era 14enne; ci incrociammo perché io facevo teatro in una parrocchia delle case Fiat, e Vacis e gli altri vennero a vedermi. Mi ingaggiarono per un loro spettacolo che non si fece. Ma continuammo a lavorare insieme poi nel 1982 ci recammo dal notaio e fondammo ufficialmente Teatro Settimo».

È vero che si deve a voi l’invenzione del teatro di narrazione e del monologo?

«In quegli anni facevamo molto lavori corali, anche con Marco Paolini e Marco Baliani per un periodo. Non abbiamo fondato niente, facevamo i nostri spettacoli. A un certo punto però alcuni di noi cominciarono ad aggiungere anche testi in forma di monologo. Successe che un critico, non so chi ma vorrei dirgli grazie, si inventò la nozione di teatro di narrazione e così fummo riconosciuti».

Come nacque il suo Olivetti?

«Sono due gli spettacoli Olivetti; c’è quello su Adriano il figlio, per tre attrici, che iniziai a progettare per primo ma che arrivò dopo, nel 1998; quello su Camillo è del ’96. Accadde che, mentre mi addentravo nella ricerca su Adriano, da figlia della Fiat, cioè dell’altra fabbrica che allora dettava a Torino una monocultura, mi domandai come era possibile che nella vicina Ivrea esistesse un paese di Bengodi dove tutti avrebbero voluto lavorare e vivere. Il primo sentimento fu di diffidenza, volevo destrutturare il mito; salvo però dover ammettere che si trattava di un vero genio. Studiando Adriano, incappai nel personaggio geniale, pazzo, capriccioso, divertente, e teatrale, di suo padre Camillo Olivetti; e da qui ho ricominciato».

Cosa ha scoperto in Camillo?

«Camillo era il personaggio di fine Ottocento che indossa il mantello e va alla conquista del mondo. Era ingegnere, da eroico solitario mise su un’azienda di 2 mila persone grazie alla tecnica e ancor più alle idee. Ampio orizzonte culturale, si dice che ai nuovi assunti chiedesse se sapevano il Sanscrito, la madre Elvira era modenese. Di famiglia ebrea, cultura dei salotti, 4 lingue, Elvira si ritrovò nella sperduta Ivrea per un matrimonio combinato dal rabbino. Il marito morì presto, lei crebbe al meglio i figli. Camillo si laureò con il fisico Galileo Ferraris che lo volle in un viaggio americano perché il ragazzo parlava inglese. Al ritorno, avviò un’azienda di contatori per l’elettricità poi, dopo un periodo a Milano, tornò a Ivrea e creò la Camillo Olivetti & C. prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere».

In che modo trasmette questa affascinante storia?

«Nella prima parte la affido alla madre ebrea Elvira, nella seconda alla moglie Luisa, valdese. Pare che Camillo l’avesse vista alla stazione, fosse sceso dalla bicicletta, e le chiese se voleva sposarlo. Quella di Camillo è dunque anche una storia di minoranze, di fedi e indipendenza culturale diverse. Fatto questo che gli insegnò a farsi strada da altri punti di vista».

Info: 392 6664211

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