L'analisi di Affronte: allarme rosso per la pesca in Mediterraneo

La pesca, dal 2009, con il Trattato di Lisbona, è materia “esclusiva” dell’Unione Europea. Tutte le decisioni e le politiche partono dunque da lì. Ogni anno, più o meno verso primavera, la Commissione Europea pubblica un rapporto relativo alle possibilità di pesca per l’Unione, per l’anno successivo. In pratica si fa il punto della situazione. Ogni anno, per lo meno negli ultimi anni, il succo del discorso lo si può riassumere così: l’implementazione della Politica Comune della Pesca (da gennaio 2014) sta dando buoni risultati in particolare nei mari del nord dell’Unione, dove grazie alle misure messe in atto gli stock almeno in parte si riprendono e il settore della pesca ha visto aumentare la propria redditività.

Ma non è così in Mediterraneo dove la situazione resta invece pessima, con stock in grave sofferenza, e conseguente grossa difficoltà anche di tutto il settore.
E, a seguire, dati e numeri che parlano purtroppo chiarissimo: se è vero che anche nel Baltico o nel Mare del Nord il 41% degli stock è eccessivamente pescato, il Mar Mediterraneo si trova attualmente nel peggiore stato di tutti i mari europei, con circa il 90% degli stock ittici sovrasfruttati e alcuni ad alto rischio di completo collasso. Secondo gli scienziati, alcune specie come il nasello, la triglia e la rana pescatrice sono pescati a livelli circa 10 volte più alti di quelli che sono considerati sostenibili.
Una situazione drammatica e sconcertante, come sconcertante è il fatto che non si riesca a porvi rimedio. Gli strumenti e le politiche della PCP, per tanti e diversi motivi, in Mediterraneo non stanno funzionando. La cosa ci riguarda molto da vicino visto che l’Italia è lo stato europeo che maggiormente dipende, per la pesca, dal Mediterraneo. Per ovvi motivi geografici, ma anche per le caratteristiche della nostra flotta peschereccia, costituita in larghissima parte da piccole imbarcazioni. Circa la metà di tutte le imbarcazioni europee che pescano in Mediterraneo sono italiane, così come circa la metà delle catture in questo bacino sono a carico delle nostre imbarcazioni.
La situazione drammatica degli stock mediterranei, sui quali pesano anche molti altri fattori, come i cambiamenti climatici, la degradazione degli ecosistemi naturali, diverse forme di inquinamento, si riflette così su un settore economico in forte difficoltà. Un mestiere, quello del pescatore, durissimo e che nel tempo è diventato sempre meno redditizio. La conseguenza è la riduzione della flotta a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, con sempre più barche dismesse (anche grazie agli incentivi economici della UE), ma con una situazione generale che, al momento, non migliora. Le politiche di gestione degli stock richieste dalla Commissione Europea si scontrano così con un settore che per le sue difficoltà economiche, e per la sua natura molto conservatrice, non accetta quasi mai le proposte drastiche, ma necessarie, per fare riprendere gli stock. Questo si traduce in un dibattito politico in cui, quasi sempre, vince la linea di un pessimo compromesso al ribasso, con misure che escono infine dalla istituzioni troppo deboli e annacquate, rispetto a quanto sarebbe veramente necessario. Il concetto, tutto sommato, sarebbe anche molto semplice: per avere un settore della pesca che si sostiene economicamente nel tempo, servono stock ittici sani e che, a loro volta, si mantengono nel tempo. Purtroppo la politica di corto respiro e della ricerca di un immediato consenso molto spesso impedisce questo. Non a caso in Commissione Pesca del Parlamento Europeo gira la battuta: “i pescatori votano, i pesci no”.
(*) Naturalista e Divulgatore scientifico - ex europarlamentare

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