"L’accoglienza è un’arte che si impara in Romagna"

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Il suo pronome preferito è “noi” e a una preposizione che tende a gerarchizzare come il “per” preferisce un più democratico “con”. In un mondo in cui essere celebri spesso conta più delle effettive qualità, e l’individualismo è assurto a imperativo, la cura nell’uso delle parole di Giuseppe Palmieri ha tutto il profumo delle care e vecchie maniere. La giacca e la cravatta portate senza accenno di alterigia, racchiudono un professionista dal basso profilo. Garbato quanto basta per non diventare stucchevole e curioso al punto da non porsi mai limiti nel condurre il suo palato e il suo olfatto verso i confini anche più estremi dell’enogastronomia, salvo poi, alla fine, tornare ogni mattina e ogni sera al civico 22 di via Stella a Modena, dove è parte fondamentale dell’ingranaggio che consente a chi si siede a un tavolo dell’Osteria Francescana di vivere una grande esperienza. Nel tempio dello chef Massimo Bottura e della moglie Lara Gilmore, Palmieri è arrivato la bellezza di 21 anni fa e oggi è restaurant manager e sommelier. Anzi no, come direbbe lui, «sono solo un cameriere e parte di una squadra stupefacente».

Partirei dall’inizio: dove ha cominciato la sua carriera?

«Provando a riflettere, direi che ho iniziato a fare sala sul serio nel 1995, quando ho lasciato la mia Matera per trasferirmi a Cattolica, dove venni assunto al Grand Hotel Diplomat».

Il sommelier del ristorante considerato tra i migliori del pianeta ha mosso i suoi primi passi in Romagna?

«Assolutamente sì e torno sempre volentieri per imparare come si fa il mio lavoro. Lo voglio dire chiaro e tondo: chiunque nella vita voglia fare il mio mestiere deve, e dico deve, passare dalla Romagna. È la migliore palestra al mondo per imparare l’arte dell’accoglienza e del servizio col sorriso sulle labbra».

Dopo l’esperienza a Cattolica, come è proseguita la sua carriera?

«Prima sono andato a Villa Crespi, dove ho iniziato a occuparmi di vino, poi alla Taverna del Pittore e al San Lorenzo di Londra. Sono stato in Toscana e alla fine sono arrivato alla Locanda Solarola, alla corte di Bruno Barbieri».

È qui che ha conosciuto Massimo Bottura, giusto?

«Era il 1999. Lui e sua moglie Lara venivano a mangiare la domenica a cena. Rimasi incuriosito dal loro entusiasmo, così un lunedì di novembre mi decisi e andai a mangiare alla Francescana. Fu amore a prima vista e l’anno dopo ho iniziato a lavorare con loro».

Insieme avete raggiunto traguardi di assoluto prestigio, ma come si arriva a questi livelli di eccellenza e, soprattutto, come si fa poi a mantenerli?

«Lo si fa con la consapevolezza di essere parte di un ingranaggio. Dentro l’Osteria Francescana ogni giorno giochiamo, per così dire, due champions league, una a pranzo e l’altra a cena, perché chi viene da noi ha grandi aspettative. Ecco che il concetto di squadra diventa essenziale e la vera chiave del successo. Al ristorante abbiamo smontato l’assetto verticale e adottiamo quello orizzontale. Siamo tutti colleghi-amici, ognuno dice la sua e il confronto dà corpo al percorso. Infine, la solidità: dentro un ristorante bisogna essere tutti presenti, sempre».

Quante referenze di vini sono presenti nella vostra cantina e come scegliete gli abbinamenti con i piatti?

«Attualmente abbiamo circa 1.600 etichette da tutto il mondo, con un’attenzione particolare, nemmeno a dirlo, per l’Italia. Il percorso di abbinamento cibo-vino è il frutto anche qui del confronto fra noi cinque sommelier e di un rapporto maturato negli anni con la cucina di Massimo. La conoscenza della tecnica e della materia prima ti conducono alla scelta di una bottiglia per accostamenti a volte, per così dire, più “classici” e altre volte completamente fuori dagli schemi».

Come vede la Romagna del vino oggi?

«Conoscenza e passione sono gli elementi che contraddistinguono il mio mestiere. Per questo degusto vini e giro le cantine e posso dire che la Romagna, negli ultimi anni, è stata per me una vera sorpresa. Ha fatto un grande balzo in avanti, specialmente su Sangiovese e Albana».

I giovani hanno ancora voglia di lavorare in sala?

«Ho visto e continuo a vedere tanti giovani che si dedicano a questo lavoro con sacrificio. Non è vero che sono svogliati, sono cavolate che dicevano anche quando avevo io 18 anni. Dobbiamo dare loro fiducia e speranza».

L’anno e mezzo passato è stato senza dubbio difficile per la ristorazione. Come siete ripartiti?

«Con dolore e sacrificio ci siamo dovuti fermare, ma ora siamo ripartiti alla grande».

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