"La scienza a parte" di Giuseppe Pino Boschetti

Editoriali

Il successo della mostra La pittura dell’incanto’, dedicata a Giuseppe ‘Pino’ Boschetti presso i Musei Comunali nei mesi di dicembre 2006 e gennaio 2007, non gli ha fatto minimamente cambiare idea.
Per quel che lo riguarda, infatti, sul vendere o meno le sue tele, tutto resta come prima. Anche se nel frattempo sono cresciuti quelli che, anche pagando profumatamente, sognano di portarsi a casa almeno uno dei suoi ‘lavori’ o ‘capolavori’ che dir si voglia, invece, tutti o quasi, destinati ad essere custoditi solo e soltanto tra le mura di casa.

Su questo versante, quindi, l’impressione è che gli estimatori dovranno accontentarsi di quanto ammirato in mostra perché, lui, Pino Boschetti, 63 anni, dipendente comunale a riposo, non ha smesso neppure per un attimo di credere che ‘l’atto creativo’ sia (prima di tutto) una ‘questione da decidere con se stesso’ per meglio attingere temi, uomini e storie. Tante storie. Al di fuori di ogni pathos consumistico.

Pino Boschetti è molto legato al suo ambiente domestico. Dove ritrova (ogni giorno) la consorte Dolores e la nipotina Matilde, sempre felice di gettargli le braccia al collo.

Boschetti, in casa, ha attrezzato anche il suo privato ‘atelier’, ricavato nel romantico sottotetto spiovente all’ultimo piano del monumentale palazzo di famiglia, difronte alla Collegiata.

Normalmente, entrando in un atelier, ad accoglierti è una ‘sovrana confusione creativa’. Qui no. Qui le ‘cose’ sono tante, usate e ordinate da una mano nascosta ma sempre pronta a rimetterle (ogni volta) in ordine. Lasciando libero ingombro soltanto al cavalletto dove s’appoggiano i quadri, piccoli e grandi che siano; e ai mobiletti dove si maneggiano gli strumenti necessari ‘a dar il volo’ all’ inesauribile ispirazione dell’artista.

Boschetti discute sempre con amabile arguzia del suo modo di ‘fare pittura’, tradizionale, perché basata su forma-disegno-colore-luce, da molti decenni migrata chissà dove.

Lui, infatti, non ha mai ceduto alla tentazione dell’informale o dall’astrattismo o dalle esperimentazioni anteponendo loro un ‘figurativo immaginario che diventa divertito racconto quotidiano’, convincente e duramente ‘conquistato’.

Oggi, lui, non soffre affatto il confronto con forme moderne d’arte. Sulle quali taglia corto: “ Delle realtà del nostro tempo – dice - cerco di catturare quanto è possibile. Studiando ogni implicazione. Buona o cattiva che sia. Puntando sull’essenza del reale.

Con un occhio al passato, l’altro al presente. Mi riesce impensabile esprimere forme, voci e colori che mi circondano con qualche geometria o secchiata di colore.

Inoltre, per quel che mi riguarda, figurativi o informali o astratti che siamo, non mi pare occorra trasformarsi in pulpiti politici o religiosi o ideologici o artistici da cui pontificare.

Mi basta cogliere storie dentro altre storie. Frutti ogni volta della complessità del reale. Non trascurando quei sentimenti che legano le generazioni. In contesti mutevoli in cui natura e ambiente urbano diventano complici. Riferimenti biografici a parte”.

Qualcuno ha accostato Boschetti ai naifs tedeschi e slavi. Altri al fiammingo Brughel il Vecchio.

Altri ancora agli iperrealisti americani. Fornendogli tanti padri e tante madri, a seconda delle circostanze, delle prove via via fornite, ma con un gioco d’etichette, tutte giuste tutte sbagliate.

Mentre, lui, (imperturbabile) continua a ‘pescare’ a piene mani nel brulicante e prolifico ‘teatrino della vita che gli si affolla quotidianamente attorno’.

Al momento, infatti, sono ben undici le tele impostate e ancora da completare. Con ‘procedura’ antica. Quando è certo d’aver pescato la giusta ‘storia’, prende ad esaminarla abbozzando a matita decine di ‘pose’, per poi trasferirle selezionate sulla tela, dov’è sempre pronto un fondale color sanguigna ad accoglierle.

Dopodichè ‘si immerge’ dentro i suoi rebus, ‘trastullandosi’ come un ‘fanciullino’, aggiungendo o spostando, rifinendo o cancellando, fino alla stesura finale del ‘quadro’, raggiungibile, a seconda delle dimensioni della tela, anche dopo mesi di lavoro.

Il cruccio di Boschetti nei confronti degli artisti del passato, è quello di non avere potuto frequentare al pari di loro le botteghe dei maestri. Quelli che, anche in Romagna, anche a Santarcangelo, hanno coltivato la bellezza della vita attraverso l’arte.

Lui, cresciuto in solitudine. Lui, che il suo bagaglio s’è dovuto costruire faticosamente. Lui, che della pittura ha elaborato una ‘scienza a parte’, personalissima, e di grande resa.

Boschetti, si diceva,non vende le sue tele, a nessuno, preferendo ‘proteggerle’ sulle pareti di casa, dove fermarsi a rimirarle quando e come meglio crede, in santa pace. Cercare di convincerlo diversamente è inutile. Da quell’orecchio non ci sente.

Nel frattempo le campane della Collegiata che annunciano l’imbrunire attraversano improvvise lo ‘studiolo’. Dove, sul cavalletto, sta la tela già titolata ‘Il pittore e la modella’.

Prima di sospendere la seduta, il pittore s’interroga su alcuni dettagli che riguardano la protagonista, disinvoltamente distesa su un divano multicolore.

Porta qualche ritocco. Con l’aggiunta di indecifrabili segni pro memoria. Dopodichè il ‘gioco’ s’interrompe.

Davvero. Tutto viene rinviato ad un'altra seduta, come e per qual ora non si sa. Sarà la fraterna Musa a ricordargliela.

A questo punto però la lampada dello ‘studiolo’ può spegnersi, non di colpo, poco a poco, come la voce delle campane che ‘dicono, sussurrano, bisbigliano’ sul ‘far della sera’.

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