La ravennate Iacoviello firma la prima regia italiana per Netflix

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La prima regista italiana a dirigere una docu-serie su Netflix Italia è ravennate. Flaminia Iacoviello vive da ormai tre anni in Sicilia, luogo dove ha diretto l’opera che dal 24 settembre sarà in streaming. Si tratta di Vendetta, che narra la vicenda umana e processuale che intreccia le vicende di Pino Maniaci e Silvana Saguto. La storia in sei episodi di due eroi "caduti" dell’antimafia, un giornalista e una giudice. Così idealizzati eppur così capaci, si scoprirà, di compiere gravi errori. Per Iacoviello è la consacrazione dopo una grande gavetta che l’ha portata ad esperienze in produzioni di altissimo livello, come quando ha lavorato in Game of Thrones (in italiano tradotto come il Trono di Spade).

Immagino sia una grossa soddisfazione, dopo l’anglo-italiana Cosima Spender per Sanpa, essere la prima regista a vedere in streaming, sulla principale piattaforma, una propria serie documentario. Il teaser rievoca effettivamente la narrativa dello stesso Sanpa, non trovi?

«Sono felice soprattutto per il mio team. Dietro Vendetta c’è una squadra che ha lavorato incessantemente, vivendo quasi in simbiosi con i due protagonisti. Con Sanpa c’è un punto di comunanza, che è dato dall’estetica. La serie documentario sta avendo un’evoluzione, che fonde l’approfondimento giornalistico con l’arte cinematografica. E questo spinge il documentario ad avere una fruibilità molto più ampia. Trovo che per le produzioni italiana sia una "mini-rivoluzione" e sono felice, per questo, di essere passata dalla fiction al documentario. Molti compiono il cammino contrario, ma io sono orgogliosa di questa scelta».

L’ambito fiction lo avevi conosciuto con Game of Thrones, un vero colossal delle serie tv.

«Sì, ho fatto un’ampia gavetta. Prima autrice di saggistica, ed è stato da quel livello che mi sono avvicinata alla macchina da presa. Quella di Got però è stata davvero una palestra incredibile. Ero assistente ai registi, e questo mi ha consentito, dal fulcro, di capire come funziona una macchina così grande. Nel documentario mi sento a casa mia: una grande interpretazione attoriale mi emoziona, ma mai quanto l’espressione vivida delle persone».

Vendetta, quindi, entra intimamente nella vita di Pino Maniaci e Silvana Saguto?

«Decisamente, e credo che il lavoro che ha fatto la differenza, e per cui ringrazio il team con cui ho lavorato, sia stato l’essersi conquistati la fiducia di questi due interlocutori e dei vari referenti in questa doppia storia processuale. Nell’ultimo episodio, interamente da me diretto, siamo a casa di Silvana, che ha deciso di non ricevere la sentenza in aula. Ma ci ha accolti, scoprendosi in un momento di grande difficoltà, di fronte alle telecamere. E’ la scena più intensa che io abbia mai girato. Vendetta credo segni poi un unicum».

Quale?

«Normalmente un documentario si produce a fatti conclusi, in sei mesi si può concludere, con materiale di archivio e interviste ai protagonisti. Qui invece, e ritengo sia un dato innovativo a livello italiano, abbiamo seguito oltre tre anni di processo e il documentario si costruiva sui fatti che accadevano di fronte ai nostri occhi, intersecando la traettoria umana dei protagonisti. Questo grazie al lavoro compiuto dal 2005 da Ruggero Di Maggio e Davide Gambino (Mon Amour Films) su Maniaci, su cui si è innestato quello della produzione inglese Nutopia, con la quale sono approdata io».

Ora a cosa ti dedicherai?

«Ad ottobre uscirà su Discovery Channel il lavoro che sto completando in questi giorni sulle catastrofi in ingegneria civile: quattro episodi sono italiani e li sto dirigendo fra Varese, Napoli, Massa Carrara e, ovviamente, Genova per il ponte Morandi. Si prospettano poi delle serie documentarie crime, un ambito che mi appassiona molto. Però sento il richiamo delle radici».

In che senso?

«Ho vissuto quindici anni all’estero e ora da tre sono stabilmente in Italia, in Sicilia, al di là delle sortite a Ravenna. Spero però di fare qualcosa che parli di Emilia-Romagna. Ho in mente qualcosa di ben preciso, ma ancora non si può dire».

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