La ravennate Edi Minguzzi: Dante ispirato dall'astrologia

La dolcezza dei modi e il rigore dell’analisi si coniugano in Edi Minguzzi, ravennate trasferita a Monza, già docente di greco e di linguistica all’Università di Milano e autrice di diverse opere dedicate all’epoca tardoantica e medievale e all’esegesi dantesca. In particolare, ha recentemente pubblicato il Dizionarietto dantesco. Le parole ermetiche della Divina commedia (Morcelliana).

Minguzzi, lei ha scritto diversi testi dedicati a Dante: da dove ha origine questo interesse?

«Da un’esperienza infantile, come talora accade per gli interessi più autentici. Da bambina, davanti alla tomba di Dante, ascoltai commossa la storia dell’esule perseguitato che aveva trovato a Ravenna protezione e asilo. In seguito, al liceo, mi capitò di leggere le critiche sarcastiche degli illuministi, che disprezzavano la Commedia per l’oscurità e l’incoerenza dottrinaria e strutturale. Un “volume grosso, dove quanto più si leggeva tanto meno se ne intendeva”, la definiva il Bettinelli; “un guazzabuglio”, ribadiva Voltaire, di cui se la gente parlava bene era perché non l’aveva mai letta. Mi parve un oltraggio insopportabile. Forse il ricordo di quella tomba austera e solitaria mi aveva lasciato un segno indelebile; il fatto è che allora, con l’incoscienza dei sedici anni, decisi che un giorno avrei reso giustizia al poema e al suo autore, e cominciai a studiare il mondo medievale. Un impegno che non ho dimenticato: più tardi, da linguista, ho applicato i metodi della linguistica strutturale e comparativa per individuare la struttura unitaria e il principio organizzatore capace di comporre in armonia le incongruenze del poema».

Della “Commedia” sono state date molte interpretazioni: qual è il suo sguardo sull’opera dantesca?

«Le interpretazioni sono innumerevoli, intanto perché il poema, lo dice Dante stesso, è polisemico, cioè ha molteplici significati e si può leggere a più livelli e da molteplici prospettive. Per di più presenta aspetti che risultano incomprensibili perché riferiti a una visione del mondo che non ci appartiene più: come tessere di un mosaico che non si sa dove collocare perché il disegno è ignoto. Per rintracciare la struttura del poema e la trama di relazioni logico-simboliche che lo sottende ho cercato di ricostruire l’ambiente culturale in cui Dante si formò, e di identificare i sistemi di pensiero che gli fornirono un modello. Tra questi ritengo fondamentale il Neoplatonismo, che offriva un impianto filosofico a tutte quelle che nel Medioevo erano considerate scienze, dall’alchimia alla cabala all’astrologia, così intrinseche alla cultura di Dante, che ignorarle significa precludersi la comprensione del poema. Così l’astrologia, che per Dante è “la più nobile e alta” di tutte le scienze, ispira la struttura dell’intera Commedia: non solo del Paradiso, ma anche del Purgatorio e dell’Inferno; e le tre tappe che costituiscono l’itinerario ermetico-alchemico, Opera al Nero, al Bianco, al Rosso, costituiscono il modello delle tre cantiche della Commedia».

A questo panorama culturale si riferiscono allora le “parole ermetiche” della Commedia che danno il titolo al suo libro?

«In ogni tempo il linguaggio scientifico assume la terminologia della lingua d’uso con un’accezione diversa: nell’età dei computer a nessuno verrebbe in mente di tradurre “mouse” con “topo”, che pure è il suo significato. A diverso paradigma scientifico corrisponde un linguaggio diverso: per comprendere quello della Commedia è perciò indispensabile ristabilire il significato delle parole in relazione alla terminologia scientifica e filosofica con cui si esprimeva allora il sapere. Così il cristallo per Dante era ghiaccio pietrificato, e in quanto ghiaccio l’astrologia lo collegava al gelido Saturno. Ignorare questo significa perdere un intero tessuto di corrispondenze che lega Saturno, il cristallo celeste, al ghiaccio dell’ultimo cerchio dell’Inferno. Così un personaggio-chiave come Matelda, che non ha mai trovato un’identificazione, nella prospettiva astrologica, appare chiaramente come emblema della Luna. Le stesse considerazioni valgono per il Veltro, il Messo, o il famigerato cinquecento dieci e cinque, il DXV che alla luce della numerologia cabalistica rivela significati forse sorprendenti».

L’italiano di Dante il “sole nuovo”che illuminò l’uomo

Minguzzi, quale pensa sia oggi l’eredità culturale di Dante?

«Intanto, la nascita del volgare italiano, la nostra lingua attuale, che Dante “inventò”; e, con la lingua, la laicizzazione e l’universalizzazione della cultura, che allora era appannaggio esclusivo di chi parlava il latino: i dotti e agli ecclesiastici. Già solo questo evento cambiò l’Italia e fornì allo spirito europeo in formazione un modello di cultura e di civiltà. Dante ne era consapevole, tanto che chiamò l’italiano “sole nuovo”, e lo destinò a “dare lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade”. Ma fu “sole nuovo” anche il messaggio che questa lingua seppe veicolare: Dante che sale attraverso i cieli e si immedesima con Dio prelude all’età futura, l’Umanesimo, che pose al centro l’uomo, la sua realtà terrena, la sua dignità. Basti la testimonianza di Primo Levi, che nel degrado e nell’orrore di Auschwitz si ripeteva i versi dell’Ulisse dantesco: “Considerate la vostra semenza. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Se li ripeteva, disse, per non dimenticare la sua dignità di uomo. La lingua di Dante, la nostra lingua nazionale, sapeva già allora esprimere i sentimenti più nobili dell’umanità, rendendoli eterni e universali». E.B.

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