La pandemia raccontata dal giornalista Gigi Riva in un libro

Cultura

«Molti di loro erano parenti, amici, conoscenti, volti noti nel panorama umano del mio paese e non ci sono più, spazzati via dalla pandemia, coloro che sono rimasti hanno dovuto leccarsi le ferite, rimboccarsi le maniche e raccogliere l’eredità di una intera generazione».
Chi parla è Gigi Riva, romanziere, sceneggiatore, editorialista dell’Espresso, autore di un libro uscito una settimana fa che già ha fatto esplodere un’attenzione mediatica fortissima. Si intitola "Il più crudele dei mesi. Storia di 188 vite", edito da Mondadori, radiografia delle tragiche vicende di Nembro, sua città natale, in uno dei momenti più cupi della sua storia e a indicarlo sono le cifre impietose.
«Di Covid-19, tra la fine di febbraio e aprile 2020, sono morte 188 persone, 164 a marzo, il più crudele dei mesi, su una popolazione di 11.500 abitanti, nella Prima guerra mondiale i caduti erano stati 126, e 98 nella Seconda».
Sono passati due anni e c’è ancora tanto bisogno di sapere e trovare risposte. Riva è uno dei più sapienti esponenti del filone definito letteratura del vero, e lo conferma con questo suo ultimo libro in cui unisce magistralmente l’analisi cronachistica al racconto empatico che appartiene alla prosa classica. Il suo narrare svela l’interesse per l’incontro, per l’altro, per la storia degli individui in relazione al loro ruolo sociale, raccolta dove hanno vissuto e lavorato, traendo dalla memoria dei loro cari, ed emergono così vita, carattere, socialità di una città e del suo territorio. L’autore aggiunge il suo saper legare il piccolo mondo a quelli più lontani, dove lo ha portato il suo lavoro di inviato lasciandogli un bagaglio enorme di esperienze, visioni, insegnamenti. Per questo la prima domanda attiene proprio al suo essere stato a lungo inviato nelle aree più calde del pianeta dal Medioriente ai Balcani.
Cosa pensa quando paragonano la pandemia a una guerra?
«Rispondo con questa battuta: dalla guerra si esce denutriti, dalla pandemia obesi. Ho trovato assurdo che fossero messe sullo stesso piano una catastrofe in cui l’uomo va contro l’uomo, dove ci sono torture, stragi, violenza, e una in cui c’è un insignificante nemico invisibile che non fa distinzioni e non ha ideologia, non prova desiderio di sopraffazione, né piacere nel massacro. Non era una guerra, dunque, ma certo si moriva come in guerra».
Lei scrive che un’analogia c’è e riguarda le conseguenze psicologiche su chi è rimasto.
«Sì, mentre il panorama fisico della città non è mutato, quello interiore ha subito uno sconquasso. In chi è rimasto e ha perduto le persone di riferimento, in famiglia e nella comunità, ha provocato gli stessi traumi psicologici e non a caso la psicologa, che ho sentito e che fin dalla prima ondata ha offerto gratuitamente il suo supporto, ha utilizzato le stesse tecniche e la stessa metodologia seguita per i profughi e gli sfollati di guerra. Il governo ha deciso due anni dopo di dare un bonus per questo tipo di supporto!».
Torniamo al 2020 e al momento in cui tutto ha avuto inizio in mezzo all’impreparazione più totale. Lei scrive che «da dicembre a fine febbraio, quando è stato individuato in Italia, e a Nembro con gli esiti più nefasti, al virus che si stava replicando a velocità supersonica è stato concesso un vantaggio smisurato». E gli errori sono proseguiti. Quanta rabbia scaturisce! Come si è posto di fronte a questa emozione incontenibile?
«Se le scelte fossero state diverse, se si fosse chiuso l’ospedale, fosse stata istituita la zona rossa, si sarebbero evitati in quel territorio 4mila morti. Io ho raccontato la situazione degli ospedali, delle cure medievali – mancavano persino mascherine, tamponi –, il dilettantismo, la superficialità, le mancanze della sanità pubblica in una regione plurilodata per le sue eccellenze e troppo delegata al profitto dei privati, che si era dimenticata della medicina di base, le posizioni inconciliabili e i linguaggi incompatibili tra scienza e politica come si evince dalla disperata denuncia di alcuni medici, del sindaco che ho riportato. Io ho scelto di raccontare i fatti perché ho voluto che il lettore si facesse un’idea dell’accaduto».
Perché ha sentito l’esigenza di scriverci un libro oltre ai tanti articoli prodotti in quel periodo?
«Tutto è cominciato dal mio primo articolo uscito in quei giorni sull’Espresso “Spoon River Nembro”. Mi chiamò l’editor della Mondadori dicendomi che avevo scritto un pezzo di letteratura ed ero obbligato a estenderlo su 300 pagine. Lo voleva in tempi rapidi ma gli dissi che avevo bisogno di tempo e di riflessione tanto era forte il mio coinvolgimento emotivo. Accettò la mia richiesta, la spinta decisiva è scattata col mio ritorno a Nembro dopo la prima ondata. Avevo delle perplessità, mi sembrava quasi blasfemo, ma tutti coloro che incontravo lì mi dicevano che dovevo scrivere, dovevo farlo per loro. E io sapevo di avere un vantaggio competitivo, se non lo facevo io non lo poteva fare nessun altro; ogni libro ha una stella polare in questo caso: se conosci bene il tuo metro quadro, conosci un po’ tutto il mondo».
Così è iniziato il lavoro sul campo durato tre mesi, con decine e decine di interviste, incontri, stando da sua madre, che ora non c’è più e che tanta parte ha nel libro.
«Compresi che poteva diventare una storia paradigmatica, esemplare, attraverso cui raccontare la storia della pandemia con quegli aspetti di tragicità, resistenza, che erano simili in tutto il mondo. Mi consola che mia madre, vittima collaterale del virus, sia riuscita a leggere il testo e almeno nella memoria di chi lo leggerà perpetuo il suo ricordo».

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