La necessità poetica dell'arte sale in vetta

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DI VITTORIO D'AUGUSTA

Una interessante mostra d’arte, dal suggestivo titolo Sui monti la via più breve è da vetta a vetta (citazione da Nietzsche), è allestita nell’ala nuova del museo di Rimini fino al 26 agosto. Vi espongono due giovani artisti, studenti alla Naba di Milano: Chiara Maria Suraci e Santiago Sambuci. La mostra, stimolante per la qualità delle opere e per il progetto espositivo, a cura di Linda Spagnolo Corso, sollecita alcune considerazioni. Intanto fa piacere trovare conferma che non si è interrotta quella linea poetica, introspettiva, antillustrativa, che ha radici nella gestualità lirica del Novecento: segno che le Accademie, quando hanno buoni maestri, sanno dare le giuste indicazioni, favorendo e rispettando l’autonomia e il talento dei singoli studenti.

I due giovani usano materiali e linguaggi diversi, ma accomunati da un pensiero poetico che si concentra su ciò che è “necessario”. C’è, appunto, nei loro lavori, un’idea di “necessità”, che è la stessa che alimenta i poeti, e che, in fondo, coincide con il termine, forse stantio eppure preciso e insostituibile, di “vocazione”.

Santiago Sambuci è autenticamente pittore, trova dentro di sé le ragioni di una comunicazione insieme varia e coerente. Viene in mente un verso di Montale di un secolo fa: essere come il mare, «vasto, diverso e insieme fisso». Pittura ampia, di dimensioni e di pensiero, a tratti ancora acerba, ma le imperfezioni, a differenza delle falsità, non guastano, possono aggiungere espressività. Aree di colore vibrante, trasparente, luminoso si alternano a brani più oscuri, a grumi e presagi d’ansia. Il nostro tempo non concede spensieratezze, ma non nega il diritto alla vitalità e all’energia espressiva.

Di questa carica emozionale, vitalistica, è dotata anche l’opera plastica di Chiara Maria Suraci. La giovane artista usa, come materiale più adatto alla sua vena espressiva, l’argilla, cotta o cruda, smaltata, manipolata, accarezzata, aggredita. Non mira ad effetti materici né a esibizioni di abilità tecnica – vizio e virtù dei ceramisti –, usa la creta per la sua disponibilità ad accogliere impronte di intenzione antropomorfica: materia che si plasma alla suggestione di corpi appena accennati, non descritti, trasognati, sfiorati dall’immaginazione. Trae dalla “povertà” della creta segni di poesia, quasi un’eco lontana, o consapevole eredità, delle commoventi creazioni di Nanni Valentini. Entrambi i giovani artisti non raccontano episodi, non sono interessati alla “cronaca”, ma registrano il pulsare interno della vita, si “confessano”, dando ragione all’intuizione di Umberto Eco, per cui l’arte è una forma di confessione. La loro manualità non è mai artigianale, o di abbellimento decorativo, ma portatrice di fiducia nella comunicazione sensibile, umana. La mostra, infatti, è congegnata come un itinerario a due, un colloquio fatto di evocazioni e rimandi visivi, con cui il visitatore, quasi terza figura del discorso, entra in sintonia. Una misura naturale, di sobrietà e controllo, guida il percorso espositivo, che non è una “messa in scena” per meravigliare, ma una offerta di pensieri, di forme e di colori, tappe di un immaginario cammino meditativo, di stanza in stanza, o “da vetta a vetta”, come suggerisce, puntualmente, il titolo della mostra, tratto da “Così parlò Zarathustra”.

Si auspica che l’ala nuova del museo continui, con assiduità, in un programma di perlustrazione della giovane arte contemporanea. L’ala nuova è un interessante edificio razionalista degli anni Trenta, già sede ospedaliera. Ha ospitato mostre d’arte anche importanti, ma troppo diradate nel tempo: non si è creata una tradizione espositiva, o almeno una aspettativa, che potesse invogliare i cittadini a frequentarlo. Una lacuna che andrebbe colmata, un tassello in più per “Rimini capitale di cultura”.

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