La lettera spedita dal fronte del bersagliere di Vergiano

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Al periodo della Grande guerra abbiamo dedicato diverse pagine di questa rubrica di “Fatti e personaggi della cronaca riminese tra Ottocento e Novecento”. Abbiamo rievocato i bombardamenti austriaci, il terremoto, l’arrivo dei profughi veneti, i lutti della “Spagnola”, la desolante congiuntura socioeconomica e tanti altri disagi e sofferenze vissuti dalla popolazione nella quotidianità con abnegazione e spirito patriottico. Chiudiamo questa sequela di infausti eventi con la toccante lettera di un soldato impegnato sulla linea del fronte bellico. Il militare si chiamava Alessandro Gaddini ed era un giovane di Vergiano partito volontario subito dopo aver assistito alle incursioni dei velivoli nemici sul cielo di Rimini. Il ragazzo, di costituzione gracile, lavorava nel piccolo podere di famiglia, ma era sollevato da tutte le faccende faticose ritenute inidonee alla sua cagionevole salute e anche per questa ragione le apprensioni dei genitori nei confronti della precipitosa e avventata decisione del figlio di “partire per il fronte” erano più che giustificate. A nulla, però, erano valse le suppliche del padre e i pianti della mamma per trattenerlo. La lettera, spedita alla madre, porta la data del primo settembre 1915. Due giorni dopo Alessandro, bersagliere di Lamarmora – come era solito definirsi – moriva alla Conca di Plezzo. A dicembre avrebbe compiuto 19 anni. Era corso a combattere, ma non ebbe il tempo di sparare neppure un colpo col suo ingombrante fucile: quei pochi giorni, che si era trovato a un passo dal nemico, li aveva utilizzati a scavare trincee e a rafforzare le difese; un compito tanto pesante quanto ingrato. Questa la lettera. «Mia cara mamma, ecco uno dei momenti più deliziosi del tenore di vita che conduco attualmente. Mi riesce sommamente gradito pensare a te, cara mamma, che mi sei sempre presente alla mente, e ai miei cari fratellini, parenti ed amici. Io sono soggetto a lavori pesanti; pure con grandi miei sforzi riesco come gli altri e quando penso che soffro per la grandezza della mia Patria, ogni pena scompare e non sento più nulla. Io credo che a giorni si svolgerà una battaglia grandissima per la conquista del forte. Questo sarà un grosso combattimento come non ne ho visti mai, e lo posso arguire dai fervidi e grandi preparativi che stiamo facendo. Gli austriaci temono assai che noi avanziamo e tutta la santa notte non fanno che gettar razzi di bengala per illuminare le trincee nostre, poi riflettori potentissimi in quantità; sembra proprio di essere ad una festa campestre. Ma come ho detto, il nemico occupa sempre ottime posizioni, tende sempre tranelli che noi sappiamo quasi sempre evitare per esperienza, e per questo ci fa parere l’avanzata più difficile di quello che è. Io sto benone, sempre dello stesso umore e rassegnato a portare quella croce che piacerà a Dio di infliggermi, e cerco di compiere sempre il mio dovere più scrupolosamente che mi è possibile, quantunque questo costi non pochi sacrifici. Mi dispiacerebbe immensamente che dopo tanto soffrire e tanta abnegazione non potessi ottenere i benefici a cui aspiro per la Patria mia. Questo sarà ben lontano dall’essere, ma tuttavia bisogna sempre dipingere le cose sotto tutti gli aspetti». Ad Alessandro, uno dei 688 riminesi morti nella Guerra del Quindici, non sono state date medaglie o encomi. La sua lettera ha trovato menzione solo nel volume di Armando Bartolini, Volontari di Romagna, edito nel 1929. Ed è qui, tra queste pagine logorate dal tempo e abbandonate nel dimenticatoio, che abbiamo fatto la sua conoscenza e con la sua quella di tanti altri giovani che immolarono la loro vita per l’Ideale. Nel 1925, in occasione del VII Anniversario della Vittoria, il Comune di Rimini dette alle stampe l’Albo d’Oro dei caduti della prima guerra mondiale: ogni martire vi è citato con paternità, data e luogo di nascita, arma in cui fu combattente e giorno e luogo della fine gloriosa. Il volumetto testimonia come la città, per quella guerra «abbia dato i suoi figli migliori in tutte le Armi e in tutte le battaglie; come il sangue generoso de’ suoi figli sia stato versato sul Grappa, sul Carso, sul Piave, ovunque brillò la Vittoria; come fra quella schiera numerosa ed eletta, Rimini conti e vanti figli nobilissimi, le cui gesta di fermezza, di slancio di ardimento, sono da registrare fra le più fulgide pagine della sua storia». Sulla spinta di questi nobili sentimenti, nel 1926 fu eretto in piazza Ferrari il monumento ai caduti delle varie guerre per l’unità e l’indipendenza d’Italia. I nomi dei 688 cittadini in uniforme sono incisi nella Cappella votiva ad essi dedicata nel Tempio Malatestiano. L’iniziativa di eternare nel marmo, nel bronzo e sulla carta «il Culto dei Morti di guerra», affinché la loro memoria «conservi e susciti nel popolo le virtù magnanime per le quali Essi furono e restano esempio sublime dell’Amore di Patria», fu voluta, sostenuta e concretizzata dal sindaco Antonio Del Piano (1870-1954). Anche a lui vada il nostro ricordo.

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