La fotografa riminese Elisabetta Zavoli in mostra a Modena

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Vite raccontate senza alcun filtro o ideologia, ma come incontro tra umanità diverse, su cui ha posto l’obiettivo, con attenzione e rispetto, la riminese Elisabetta Zavoli.

“Farfalle di velluto” fino al 12 febbraio alla Biblioteca Poletti, presenta 100 fotografie e video interviste del lungo viaggio da lei compiuto tra il 2012 e il 2018 nell’Indonesia transgender. Immagini che mirano a indagare il processo interiore di trasformazione per realizzare la propria identità delle “waria”, nome con cui vengono indicate le donne transgender, .

Se spesso sono gli stereotipi sulle donne transgender ad essere sottolineati – lavoratrici del sesso, performer chiassose, sieropositive – nel suo racconto fotografico sono invece l’umanità, l’ironia, il dolore e la malinconia ad essere protagonisti.

Nel suo lavoro più recente “And in darkness you find colors (E nell’oscurità trovi i colori)”, la reporter documentarista riminese, che ha esposto in tre continenti lavorando prevalentemente su temi ambientali, e ha vinto numerosi premi internazionali, ha raccontato come in una sorta di “favola dark” le emozioni vissute durante il lockdown: «Questo giardino e la fotografia sono diventati la nostra scialuppa di salvataggio… Ogni notte, realizzavamo la nostra idea dall'oscurità più completa, illuminando la scena con diverse fonti di luce. Usavamo oggetti che trovavamo in casa: giocattoli, lenzuola, maschere, vecchi oggetti del garage. I ragazzi mettevano in scena le loro emozioni "tradotte" in immagini, scaturite da un immaginario collettivo tra noi tre».

Zavoli, quale indagine ha posto in essere in “Farfalle di velluto”?

«Ho voluto documentare la vita della comunità delle “waria”, il cui nome deriva da due parole: wanita (donna) e pria (uomo). Le waria si considerano “donne intrappolate in un corpo maschile” o “uomini con l’anima femminile”. Dopo aver seguito per sei anni questa comunità nella capitale Giacarta, mi sono resa conto di quanto travagliato sia il percorso di consapevolezza e affermazione della propria identità a cui esse vanno incontro. Il processo inizia mediamente verso i 10/11 anni quando il bambino non si riconosce più in un unico genere. Segue, quasi sempre, un rifiuto da parte della famiglia di origine, che considera questa diversità una fonte di vergogna. Lo stigma sociale e l’allontanamento dalla comunità sono le fasi successive. È in questo momento, difficile, che le giovani waria migrano dalle zone rurali verso le grandi città per trovare di che vivere e ricostruire legami affettivi di sorellanza con altre loro simili».

Un percorso, che andando oltre gli stereotipi, è andato alla ricerca dell’umanità, dell’ironia, del dolore, della malinconia…

«Per me la diversità è sempre stato un altissimo valore. Anzi, è una continua fonte di ispirazione, una benedizione per l’umanità. Alcune delle waria che ho frequentato, come ad esempio Mami Yuli la leader della comunità, sono diventate delle care amiche. Mi sono appassionata alle loro vite, agli eventi che le hanno segnate, con lo stesso amore e interesse che rivolgo verso le persone a me più care. Sono stata accettata nella loro comunità con un senso di accoglienza e complicità, incredibili. Le loro sono vite durissime, sempre sulla soglia della povertà o al di sotto, vengono stigmatizzate, derise, sfruttate, usate dalla “società civile”, ma non ho mai conosciuto nessuno che sia più positivo verso la vita anche in mezzo a difficoltà estreme. E sempre con la voglia di scherzare».

Cosa significa cercare la felicità attraverso la fotografia? E quanto questa è determinata dal rinvenire una connessione tra uomo e natura?

«Fare fotografie mi rende felice. È sempre stato così, fin da bambina. Non è solo l’atto in se (lo scatto-lo sviluppo-la stampa), ma soprattutto è la possibilità di raccontare delle storie. Sono fondamentalmente una “racconta-storie”, solo che non lo faccio con le parole, ma con le immagini. L’elemento comune a tutte le mie storie è sicuramente l’ambiente che ci circonda e di cui facciamo parte, quella che noi chiamiamo natura, usando questo termine quasi sempre in opposizione ad uomo, mentre dovremmo renderci conto che siamo la stessa cosa. Non esiste separazione. Anche questo sentirmi una parte di un tutto, connessa con gli altri esseri viventi, mi rende felice».

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