La danza in musica del faentino Giuseppe Albanese

FAENZA. Nuova importante uscita discografica, balzata alle vette delle classifiche di settore, per Giuseppe Albanese, ormai affermatissimo a livello internazionale e considerato uno dei migliori pianisti italiani emersi negli ultimi anni.
Il pianista faentino, docente al Conservatorio di musica “Giuseppe Tartini” di Trieste e in precedenza ai Conservatori di Cesena e Pesaro, ha realizzato la sua terza incisione per l’etichetta prestigiosa della Deutsche Grammophon. “Invito alla danza” il titolo, un brillante carosello di celebri brani, tutte trascrizioni di grandi autori: dal celebre valzer di Weber che dà il titolo all’album, a Delibes, Debussy, Cajkovskij, Ravel e Stravinskij.
Albanese, può valere per questo “Invito alla danza” la definizione di “concept album” classico?
«Vale eccome. Anche il mio primo lavoro per la Deutsche Grammophon “Fantasia” era stato così definito, contenendo composizioni nel genere della “Sonata fantasia”, quindi al di fuori dei canoni classici compositivi. Qui non vedo difficoltà a definirlo tale. Si tratta di tutte trascrizioni di brani, quindi non come erano state concepite in origine, ma tradotte, trascritte, parafrasate per il mio strumento. La parte più concettuale del lavoro è proprio il tema: la danza. Sono tutti temi di popolari balletti: da “L’uccello di fuoco”, “Coppelia”, “Schiaccianoci” (nelle rispettive trascrizioni di Agosti, Dohnany, Pletnev) a “La valse” di Ravel (nella mia trascrizione per pianoforte solo) e a un poema coreografato dal grande Nijinsky come “Prélude a l’après-midi d’un faune».
Una scelta che appare programmatica fin dal brano iniziale di Weber.
«Non è “Invito alla danza” nella sua versione originale per pianoforte (1819), ma da me eseguito nella trascrizione di Carl Tausing, allievo di Liszt, che gli diede una veste più spettacolare da “concerto pubblico”. Peraltro, presenta anche il problema della parte finale, dove in genere scatta l’applauso del pubblico prima che il brano sia finito, e allora Tausig collega con una cadenza il tutto in modo da renderlo più intelligibile secondo la logica dello spettacolo. Molto interessante è il fatto che si tratta di musica a programma, e proprio Weber, di suo pugno, spiega il significato del brano nell’introduzione, ovvero nell’invito da parte del ballerino nei confronti della ballerina, che prima declina, poi accetta, poi conversano, si presentano, si dispongono, e poi parte la danza. Quando si chiude la danza, questo grande valzer – peraltro, storicamente, il primo valzer di vaste dimensioni – il ballerino riporta a sedere la dama».
Lei unisce spesso la riflessione filosofica a quella musicale. C’entra qui un’indagine sul “dionisiaco” come parte costitutiva del discorso musicale?
«Quello che ho voluto rappresentare è che la danza è una maniera di raccontare, e lo sforzo di esprimere qualcosa di umano è comune sia alla musica che al balletto. Anche i pianisti sono in un certo senso dei ballerini nella misura in cui producono il suono tramite movimenti ben precisi, quasi realizzassero una coreografia».
Brani, quelli prescelti, che lei ha indicato come capaci di esaltare ‹‹il pianoforte, le sue infinite potenzialità timbriche››…
«Oggi il pianoforte è arrivato ad avere una timbrica molto omogenea e il pianista cerca di avvalersene per restituire una dimensione del fenomeno acustico che l’ascoltare possa cogliere in modo più “tridimensionale”. La scrittura di questi brani in disco è molto ricca di effetti timbrici. Animata dall’esigenza di ricreare il senso timbrico di un’orchestra. Un’esecuzione quindi che vuole dare tutto il colore all’uno o all’altro suono. Il pianoforte è la verità in un mondo di finzione. È come uno specchio. Non puoi mentire col pianoforte, perché sei tu che vieni fuori. Da musicista ho bisogno di condividere con il pubblico le emozioni che da sempre la musica ha suscitato in me. Questo mi dà un senso di pienezza, di completezza».

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