La cucina naturale di Simone Salvini: "Siamo ciò che assimiliamo"

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Fino al 2011 è stato primo chef del ristorante Joia a Milano, unico stellato vegetariano d’Europa. Per un periodo è stato anche «non lo chef italiano vegano più famoso, ma lo chef italiano più famoso in assoluto» grazie all’imitazione spietata che ne faceva Crozza in tv. E lui l’ha presa con un sorriso e filosofia. Del resto dietro alla cucina di Simone Salvini ci sono proprio le sue letture e i suoi studi accademici filosofici. Lo chef sarà a Imola tutti i week end del Baccanale con un food truck, ospite della nuova bottega di Alce Nero, marchio del biologico con cui collabora da anni, per proporre alcuni suoi piatti sul tema “L’amaro buono che fa bene”.

Salvini, da qualche anno lei ha deciso di uscire dalla cucina di un ristorante . Perché?

«Nel 2011 ho dato le dimissioni dal Joia d’accordo con il mio maestro Pietro Leemann per mettermi a disposizione della formazione. Ho creato diverse scuole e progetti e negli ultimi dieci anni ho girato molto e studiato. Ho fatto una ristorazione vegetariana gourmet per tanti anni fino ad arrivare ai vertici, ma a un certo punto avevo desiderio di stare in mezzo alla gente e condurre una vita un pochino più normale, non so se ci sono riuscito. Uscire da quel mondo è stato difficile. Sono legato al mio maestro e al Joia, ma credo che il cibo vegetariano adesso debba avere il successo che merita e le attività che faccio spero che siano, nel mio piccolo, utili a renderla un po’ più popolare. Se invece restiamo chiusi nei nostri ristoranti, soprattutto se stellati, si rischia di essere elitari».

In effetti sulla cucina vegetariana e vegana pesano ancora pregiudizi, chi la considera una moda chi al contrario ci scherza su, benché sia la quotidianità di molte persone. Cosa dovrebbe cambiare?

«Qualcosa deve cambiare per forza? Io non sono un profeta, non sta a me decidere cosa bisogna fare, posso dire che io ho tanto lavoro in questo campo. Alla Fondazione Veronesi, per Alce Nero, oggi la mia casa madre, insegno in diversi istituti di prestigio. Sì, ci sono pregiudizi, ma non si può imporre una scelta. Adesso attraversiamo un momento favorevole perché la dieta vegetariana viene consigliata da studiosi, medici, economisti, da Greta Thunberg. Li ringraziamo, ma noi siamo partiti molto prima, perché lo sentivamo dentro».

Il suo percorso come è stato? Lei fa spesso riferimento ai vegetariani illustri dell’antichità.

«Fin da giovane sentivo necessità di cucinare in questo modo, avevo cominciato a lavorare nei ristoranti toscani fiorentini legati alla tradizione, ma leggevo e studiavo le biografie di grandi personaggi del passato sia occidentali che orientali che già secoli fa ponevano questioni legati alle scelte alimentari. Questa cosa mi incuriosì e già a 22/23 anni amavo mangiare cibo vegetariano, poi è diventata anche professione. Ci sono molti personaggi vegetariani del passato sia in Oriente che in Occidente. Se rimaniamo in Oriente il discorso è semplice, la tradizione vedica antica quanto l’uomo consiglia di astenersi dal consumo di cibi che hanno richiesto uccisione di animali perché questo ci trasmette delle sostanze che non sono utili alla nostra crescita. Sono utili forse alla crescita del fisico, ma siccome tutta la tradizione indiana ha come scopo l’elevazione dell’essere umano, è importante che questo avvenga senza pregiudicare la vita di altri esseri. Il discorso è interessante quando andiamo a studiare il pensiero occidentale. A metà fra Oriente e Occidente, Zarathustra scrisse “chi semina grano semina giustizia”, questa frase a me ha sconvolto. Per allevare devi conquistare nuove terre per gli armenti e quindi fare la guerra, chi ha l’orto mangia ciò che produce e non lo destina al foraggiamento. Poi ovviamente c’è Pitagora, tanto che la parola vegetariano è un neologismo, fino all’Ottocento si diceva “sei un neopitagorico”. Teofrasto, giardiniere di Aristotele, un grande botanico e filosofo che nel terzo secolo avanti Cristo si domandava se i diritti inalienabili potessero essere estesi agli animali. Plutarco che dice: io non sono contro la caccia però l’uomo dovrebbe cibarsi di un animale solo se lo ha ucciso lui stesso, se ne ha il coraggio. Insomma, la scelta è nata leggendo, volevo migliorare e questi personaggi mi hanno fatto del bene».

Oggi si usa molto il termine sostenibilità. Una scelta vegetariana pura basta a rendere sostenibile una cucina?

«Sarebbe un errore pensare che solo veganesimo faccia rima con sostenibilità. Ci sono tanti ristoratori che fanno cucine estremamente legate al territorio e anche questo è sostenibilità. Quello che io invito a fare è proporre una cucina più rappresentativa possibile delle proprie stanze interiori. Poi sul fatto di ridurre l’allevamento intensivo ormai siamo tutti d’accordo».

Oltre alla sostenibilità dei prodotti, la pandemia sembra aver svelato che nella ristorazione c’è bisogno di più sostenibilità del lavoro, per l’uomo. Cosa ne pensa?

«Questa pandemia ci ha portato a riflettere. Abbiamo capito che tante cose del passato non possono funzionare in eterno. Ci siamo girati dall’altra parte pensando che questo sviluppo economico fosse infinito e invece ci siamo accorti che consumava tutte le nostre risorse».

Al Baccanale si parla di amaro. Che rapporto ha con l’amaro e che cos’è “l’amaro che fa bene”?

«L’amaro è il mio gusto preferito. Faccio sempre riferimento alla tradizione ayurvedica, per la quale l’amaro riconduce alla purificazione. L’amaro è utile a livello fisiologico perché depura alcuni organi primari, ma anche a livello psicologico perché purifica la mente. A Milano spesso vado a cena dalle suore di Noceto, mie guide spirituali, che specie il venerdì portano in tavola i piatti degli Esseni, l’etnia a cui apparteneva Gesù, e lì l’amaro è preponderante».

Consigli per avvicinarsi a una cucina più vegetale?

«Ascoltare i nostri anziani che naturalmente mangiavano vegetali, legumi, cereali del territorio. Consiglio di leggere qualche libro di cultura vegetariana e visitare gli ortolani, capire come si muove la terra e quali prodotti fornisce. Poi si può andare al supermercato, ci vado anche io, ma ogni tanto fa bene accarezzare un albero che ci fornisce le pere, le mele, o le pesche, le albicocche, le castagne. Siamo ciò che mangiamo ma in ayurveda si dice una cosa ancora più sottile: siamo ciò che riusciamo a digerire, ossia ad assimilare. C’è reciprocità fra noi e ciò di cui ci nutriamo».

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