La cucina della memoria di Simonetta Agnello Hornby al Baccanale

Imola

Energia da avvocata londinese e piglio di dama siciliana, scrittrice di talento e cuoca della sua casa. Simonetta Agnello Hornby sarà ospite in apertura del Baccanale di Imola (domenica 31 alle 17.30 al Ridotto del Teatro comunale Stignani). Ai suoi molti romanzi, di cui l’ultimo fresco di stampa si intitola “Punto pieno” ed è il terzo di una saga iniziata con “Caffè amaro” nel 2016, ha intercalato volumi che narravano di cucina e memorie famigliari. “Un filo d’olio” e “La pecora di Pasqua” insieme con la sorella Chiara, “La cucina del buon gusto” e “Il pranzo di Mosè”, che è diventato anche una trasmissione televisiva per Real Time nel 2014. In quest’ultimo, dedicato proprio alla tenuta di Mosè vicino ad Agrigento, dove trascorreva le sue lunghe estati da bambina, scriveva: «Tutti in famiglia eravamo padroni di casa, dal più anziano ai bambini. Era nostro compito includere nella conversazione e dare attenzione particolare ai timidi, agli anziani, e ai nuovi venuti, per far sì che ciascuno fosse a proprio agio. Seduti al tavolo della sala da pranzo, gustavamo il cibo divertendoci e chiacchierando, senza dimenticare di accudire gli ospiti».

Vorrei partire da qui, dove racconta di quelle vacanze estive, in un contesto particolare famigliare e di campagna. Mi chiedevo: è riuscita a mantenere fede a quel compito di ospitalità, legato alla tavola, anche nella sua vita quotidiana di donna che ha avuto un lavoro impegnativo e che ha girato il mondo?

«La campagna per noi in realtà non era vacanza. Quella di Mosè era un’altra casa e stavamo lì quattro mesi l’anno, perciò io non andavo a scuola, avevo una maestra privata. Si rientrava infatti a novembre dopo raccolta delle olive. Nella famiglia di mia madre l’ospitalità era sacra e io ci credo: era sacra anche nel mondo dei romani e dei greci, fa parte della mia cultura. Nel tempo l’ho fatto di mantenere quell’insegnamento. Casa mia è aperta agli ospiti che possono occupare tutte le stanze. Loro hanno la loro stanza da letto, mentre io invece dormo nel mio soggiorno e studio perché mi piace stare lì con tante cose intorno, ma agli ospiti do sempre la chiave di casa. Poi spiego loro cosa c’è nel frigorifero, come possono usare il giardino. Insomma cerco di proteggerli e far sì che la casa che da nostra diventi loro. Poi osservo sempre il comportamento dell’ospite a tavola, spesso mi fa capire se quel piatto di melanzane o di peperoni non gli piace, basta il movimento di un ciglio o vedere come si serve. In realtà è facilissimo avere cura delle persone a tavola, si può fare ed è bello. Mia madre poi faceva sempre il regalo di addio agli ospiti ed era sempre un prodotto della campagna. Dovevamo stare attenti a cosa piaceva loro di più, se le pesche o le albicocche, se amavano il caciocavallo o il cacio col pepe. Allora si preparava un vassoio o un pacchetto e porgendolo si diceva “té”, che in siciliano vuol dire tieni è per te».

La cucina ci ricorda da dove veniamo, ma anche dove siamo. Lei nella sua vita ha viaggiato e vissuto in molti altri Paesi e continenti, dagli anni Settanta vive a Londra. Ha sempre continuato a cucinare la sua cucina, quella siciliana?

«Io sono sempre curiosa di conoscere quello che mangiano gli altri, per cui ho sempre voluto sapere se la cucina dei posti dove mi trovavo mi piacesse o no. In Zambia la cucina del posto era il mealie meal, una specie di polenta di granoturco bianco, ma meno gustosa, a cui si aggiungono le poche verdure o carni che hanno a disposizione. L’ho mangiata un paio di volte soltanto, la preparava un cameriere che lavorava da noi, ma a me quel piatto non era piaciuto tanto. Allora lui mi chiese di insegnargli la mia cucina. Avevamo un orto diviso il suo e il mio, ognuno non prendeva dall’altro e quando sono andata via gli ho lasciato oltre alle ricette che gli avevo insegnato, anche tutto quello che c’era in cucina, così che potesse continuare. Dalla cucina inglese ho preso i dolci, alcuni sono meravigliosi, del resto poco e niente. L’arrosto lo faceva sempre mio marito, e lo faceva benissimo, è un ottimo piatto però un poco monotono».

Cucina ogni giorno?

«Sempre, devo mangiare... Non l’ho mai comprato il cibo precotto, non lo conosco proprio. Cucinare mi piace, non è difficile e si può fare anche veloce».

Lei non è una scrittrice di libri di cucina, ma la cucina nei suoi libri entra sempre. Lo ha contemplato fin dall’inizio, nel momento in cui ha deciso di scrivere i suoi romanzi, o è venuto da sé?

«Non ci ho pensato. Però se i personaggi del romanzo che sto scrivendo devono mangiare, li faccio cucinare. Se devo descrivere una famiglia la devo far mangiare, perché sarebbe impossibile descriverla senza parlare di questo aspetto».

Lei è un’ importante avvocata minorile, quindi anche in quel campo si occupa di famiglie. In qualche modo la cucina le è tornata utile anche lì?

«Alle assistenti sociali ho sempre suggerito che affrontassero un discorso più serio sul mangiare con le persone che assistevano. Dicevo che consigliassero alle giovani mamme di imparare a cucinare per i loro bambini, perché costa meno e i bambini mangiano meglio. Così come suggerivo che sapessero cucire un po’ per adattare i vestiti dei figli più grandi a quelli più piccoli o non li buttassero via ».

Nel terzo romanzo della trilogia avviata con “Caffè amaro”, “Punto pieno” appena uscito, si fa riferimento proprio al ricamo. Cucinare è un po' cucire, o magari ricucire?

«A me piace molto cucinare i resti, mia madre li chiamava i bon reste. È bello creare qualcosa da ciò che è rimasto, che si sarebbe buttato, ma che può diventare altro».

La trilogia di cui presenta l’ultimo libro è nata con l’intento di essere tale oppure anche questo è venuto strada facendo?

«Mentre scrivevo il primo romanzo, verso la fine mi sono detta: questo deve continuare. Poi arrivata a questo terzo romanzo credevo che fosse una trilogia, però poi le ultime frasi che faccio dire al protagonista non possono non indurmi a scrivere ancora un altro romanzo. Non lo avevo pensato, e alla fine ho dovuto riorganizzare la mia vita letteraria rispetto a quello che volevo fare, ma sono convintissima che questa saga meriti e ci sarà una puntata ulteriore, deve esserci».

Al Baccanale di Imola si parlerà di amaro. È un gusto che le piace o no?

«Io preferisco il dolce, ma di recente ho cominciato ad apprezzare l’amaro, sono pre diabetica e devo limitare il dolce, così ho notato solo ora che l’amaro è un bel gusto. Non è per niente solo negativo, c’è l’amaro di un aroma di un liquore, di una bevanda, di un cibo... non lo credevo, ma ora lo apprezzo».

Lei vive stabilmente in Inghilterra, come è ogni volta tornare in Italia?

«In Italia torno almeno una decina di volte all’anno, specie per i libri. È quasi normale questo trasportarmi, c’era una canzone di Josephine Baker che diceva “io ho due paesi”, io appartengo a due paesi. A Londra ho la mia casa, ma qui ho la mia terra, mi piace sempre tornare».

Due paesi che hanno più cose in comune o più cose che li allontanano, specie oggi?

«Siamo europei, la Sicilia è un’isola, il Regno Unito è un isola. Sia Sicilia che Inghilterra hanno avuto una quantità di popoli che sono andati ad abitarle, da noi in Sicilia come dominatori, mentre in Inghilterra venivano dalle terre dominate dagli inglesi. Ma Londra è una città di tutte le culture e anche qui c’è qualcosa in comune. Però io mi adatto. Mi sono innamorata di mio marito che era inglese, ho vissuto in Inghilterra e ci ho vissuto bene. Credo molto nell’adattarsi a un nuovo paese specie se parliamo del contesto della nostra Europa».

Il suo piatto preferito, sia italiano che inglese ...

«Ne ho tanti e sono i piatti delle stagioni. A me piacciono moltissimo gli spaghetti al pomodoro, la pasta è quello che ho mangiato quasi ogni giorno tutta la mia vita e la adoro. La pasta al pomodoro è la pasta regina. In Inghilterra apprezzo l’arrosto al forno servito con le Yorkshire pudding, che è un misto di latte, farina e uova e si serve caldo con la salsa della carne arrosto, è un piatto squisito».

Ha mai pensato di scrivere un libro di ricette inglesi?

«Mai, non lo farei! Ognuno scriva le sue ricette, su questo sono chiarissima. Le ricette sono la vita, il vivere di ciascuno. Però c’è un libro inglese scritto da una donna di inizio Ottocento, Mrs Beeton, lei era povera ma sapeva cucinare e scrisse un libro di ricette che è la mia bibbia inglese, una donna meravigliosa che manteneva i figli bene, curando la casa, cucinando e scrivendo di cucina».

Il suo libro preferito?

«Il libro che preferisco in assoluto, da quando lo conosco, è “La storia di Genji” scritto da lady Murasaki Shikibu nell’XI secolo, duemila pagine, enorme. Questa donna racconta la vita del figlio illegittimo dell’imperatore del Giappone amatissimo dal padre, uomo ama le donne, e ha tanti amori, la vita, che crede nella giustizia, sa ballare, cantare, un uomo che ogni tanto fa il monaco, lo considero mio maestro di vita e lo consiglio a tutti. A me lo diede il mio professore all’università, lo rileggo da quando avevo 19 anni il primo l’ho distrutto, poi ho comprato quello uscito 15 anni fa pubblicato da Mondadori. Lo presentai anche al festival di Mantova e ogni tanto lo risfoglio, anche se ormai lo conosco a memoria. Non scoraggiatevi dopo le prime trenta pagine, poi è stato scritto da una donna mille anni fa! È un libro che cambia la vita».

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