La Chimera di Schifano al Meeting di Rimini

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A conclusione della trilogia di eventi presentati nelle ultime edizioni del Meeting dalla milanese Casa Testori, che ha compreso l’esposizione di opere di artisti come Warhol, Antonioni, Isgrò, Wenders, il pubblico può ammirare in questa edizione della manifestazione al Quartiere fieristico l’opera più monumentale (una tela di 40 metri quadrati) di un visionario dell’arte come Mario Schifano (1934-1998): La Chimera. L’opera è esposta nel contesto della mostra Now now. Come nasce un’opera d’arte, curata da Davide Dall’Ombra, Luca Fiore, Giuseppe Frangi e Francesca Radaelli, accanto agli spazi ciascuno dedicato a sette giovani artisti al lavoro, “in diretta” durante tutto l’arco della settimana: Elena Maria Canavese, Danilo Sciorilli, Alberto Gianfreda, Elisa Muliere, Alberto Montorfano, “Brinanovara”, al secolo Giorgio Brina e Simone Novara, Stefano Cozzi.
Il momento in cui prende corpo un’opera d’arte può essere un lungo processo, scrivono i curatori, che in questo caso l’artista non tiene per sé.


Ispirata alla celebre opera etrusca della “Chimera d’Arezzo”, l’opera di Schifano fu eseguita dal vivo davanti a un pubblico di 6mila persone, il 16 maggio 1985 in piazza SS. Annunziata a Firenze, in occasione dell’inaugurazione dell’anno degli Etruschi. »Una chimera», disse l’artista, «non si può raccontare, ma si può dipingere».
«Non si sentiva volare una mosca», scrisse Monica De Bei, moglie dell’artista. «Poi portarono un trabatello… Mario ci salì sopra per finire il lavoro e cominciò rapito a dipingere con due mani contemporaneamente. Sì, con due pennelli insieme: sembrava un direttore d’orchestra… e seguitò nella sua sinfonia mentre uno schermo gigante mandava la sua immagine. Lo guardavo e pensavo che c’era riuscito, aveva realizzato un’opera emozionante come la sua esecuzione, uno spettacolo a cui tante volte avevo assistito da sola».
Un’opera connotata, scrisse Giovanni Testori sul Corriere della Sera «da una velocità, rapinosa e autorale, ardente e felice come il respiro d’un neonato e sospesa, insieme, sull’eterno come il respiro d’un morente… V’è qualcosa, per l’appunto, dell’ultimo Monet, ma come ingagliardito da un viraggio glorioso, da un’inattesa, mattinale vittoria; qualcosa v’è, anche, d’un Matisse, ma come gettato tutto sulle carezze, sulle voci, sui brividi, sull’albe e sui respiri dell’aperto… Sono opere, non di fuga dalla terribile, cieca ed egoistica mediocrità meccanica del presente, ma che, del presente, formano un’alternativa lucida e piena, oltre che una sfida; nel nome dell’uomo, della sua breve eppur infinita levità e, ripetiamolo, dell’infinita levità e bellezza di tutta e intera la creazione».

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