La bicicletta, storia di libertà e Resistenza

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B icicletta resistente. Oggi come allora, nei gloriosi giorni della Resistenza. Bici per resistere allo straniero, bici per resistere al virus. Allora la bici era il mezzo delle staffette, donne innanzitutto, come Tina Anselmi che percorreva 100-150 chilometri al giorno, ricorda Stefano Pivato in “Storia sociale della bicicletta” (Il Mulino, 2019, pp. 250, euro 22).

È del 1949 il romanzo d’ispirazione autobiografica “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, ambientato nelle Valli di Comacchio, che trent’anni dopo Giuliano Montaldo porterà al cinema. Oggi, in quest’ultimo anno pandemico, la bici è invece diventata l’emblema della resistenza alle pigrizie domestiche, legate alle necessarie costrizioni per limitare la diffusione del Covid-19. Perché di Dpcm in Dpcm la bicicletta s’è elevata a simbolo della libertà sportiva ed ecologica, in completa sicurezza se praticata in solitudine. Con la speranza che quest’esperienza di ciclo-libertà non venga accantonata nell’album dei ricordi, ma che possa diventare un modus ciclo vivendi.

Olindo Guerrini

«Non c’è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti», scriveva un pioniere della bici, nonché primo autorevole cantore: Lorenzo Stecchetti, alla fine dell’Ottocento. I suoi scritti ciclistici vennero raccolti nel libro “In bicicletta”, pubblicato nel 1901 (Tarka, 2019, pp. 90, euro 12).

Parole attualissime, soprattutto per affrontare le piccole, grandi fatiche imposte dall’isolamento, sociale e geografico. Con Stecchetti, pseudonimo di Olindo Guerrini nato a Forlì nel 1845, bibliotecario, letterato, viaggiatore e gourmet, nonché socialista e anticlericale, l’esperienza ciclistica si fa viaggio e loisir,

Stecchetti fu pedalatore tardivo ma entusiasta. Divenne «modesto ma appassionato ciclista per amor paterno», cioè seguendo il figlio, e se ne innamorò con grande passione. Stecchetti scrisse anche un poema in romagnolo, “E’ viazz”, in cui raccontava in versi il suo viaggio dalla Romagna alle Alpi, fatto nel 1903. «Che bell andè, burdell, che bell andè / In bicicletta cun la maia adoss / Cun un bel dé, cun una bella strè, / L’anma cuntenta e l’alegrí in t’ agl’oss».

Alfredo Oriani

Contemporaneo romagnolo, scrittore e ciclista fu anche Alfredo Oriani, nato a Faenza nel 1852. Pubblicò nel 1902 “La bicicletta”, in ritardo di un soffio dal rivale in lettere. Anche lui viaggia e racconta in questo libro la sua solitaria pedalata dalla Romagna alla Toscana. «Non è il viaggio o la sua economia nel compierlo che ci soddisfa, ma la facoltà appunto di interromperlo o mutarlo, quella poesia istintiva di una improvvisazione spensierata, mentre una forza orgogliosa ci gonfia il cuore di sentirci così liberi». Oriani apre il libro con “L’ode alla bicicletta”, perché se «Virgilio cantò il cavallo, Monti il pallone, Carducci il vapore, molti la nave, nessuno ancora la bicicletta; eppur né il cavallo, né il pallone, né il vapore, né la nave resero all’uomo più facile il trasportarsi ovunque una qualche necessità lo richiami, lasciandolo più signore di se stesso». Un gran signore ecologico, aggiungiamo noi oggi che abbiamo chiari i disastri provocati nell’ultimo secolo dalle automobili.

Pascoli e Panzini

Neanche Giovanni Pascoli ha dimenticato la bicicletta, dedicandogli una poesia nel 1903, «…Mia terra, mia labile strada, / sei tu che trascorri o son io? Che importa? Ch’io venga o tu vada, / non è che un addio! … dlin... dlin...».

Pochi anni dopo, nel 1907 Alfredo Panzini racconta il suo lungo viaggio in bici da Milano a Bellaria in “La lanterna di Diogene” (Tarka, 2017, pp. 220, euro 14). La bicicletta come esercizio fisico e psicologico, movimento detossificante, cura del moto e del sole, prendendo a prestito proprio il titolo del primo capitolo del libro di Panzini.

Sono questi solo i primi autori romagnoli che hanno cantato la bici, numerosi e appassionati, testimoni di un antico, saldo legame tra la Romagna e le due ruote. Un amore messo anche in musica da Secondo Casadei che nel 1937 canta “Un bès in biciclèta”, vero e proprio inno dell’amorosa spensieratezza che regala la bicicletta.

Saltiamo in sella quindi e spingiamo il ferreo corsier sulle strade asfaltate e su quelle bianche della Romagna, magari per andare a leggere un libro all’ombra di un’arvura o per portare un fiore rosso di papavero sulla lapide di una partigiana o di un partigiano. Bicicletta resistente, ora e sempre!

* Insegnante, pedalatore, marinaio e scrittore

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