L'architetto riminese volontario in Siria controlla le case dopo il terremoto: "Non potevo dire di no"

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«Un deserto di macerie. Serviranno decine di anni per ricostruire la Siria». È questo il drammatico bilancio delineato dall’architetto 55enne Diego De Gregori, partito volontario da Rimini, destinazione Aleppo in Siria, dove si trova tuttora, accogliendo la chiamata dell’associazione Pro Terra Sancta, per monitorare gli effetti del terribile sisma che ha colpito il Paese nel febbraio scorso.

Qual è una prima stima tra edifici crollati e strutture ancora a rischio per le scosse d’assestamento?

«L’amministrazione di Aleppo ci ha fornito i dati ufficiali ma, vista la situazione, temo non siano particolarmente attendibili. Ad oggi risulta censito circa il 30% dei fabbricati a fronte di 450 edifici crollati, 800 che hanno riportano gravi danni, 5300 danneggiati e al momento non fruibili e un’infinità di strutture con danni lievi. Ma siamo solo al 30% delle verifiche. Cifre ottimistiche, a mio avviso, perché si uniscono alle ferite inferte dalla guerra civile durata 12 anni e non ancora risolte. Quanto alle scosse di assestamento ora proseguono sulla faglia dell’epicentro in Turchia».

Quanto tempo ci vorrà per la messa in sicurezza? E per il ripristino?

«Difficile rispondere con precisione, forse decine e decine d’anni, fermo restando che il vero pericolo è la mancanza pressoché totale di una cultura del rischio. I bambini giocano tra le macerie. Purtroppo è un dato di fatto».

Cosa potrebbe rallentare i lavori?

«Ostacoli per la ricostruzione sono le difficoltà in cui versa il governo ma anche l’embargo che impedisce in tutto o in parte l’arrivo di materiali e infine la mancanza totale di mezzi. Non si vede l’ombra di una ruspa e scavare a mano tra le macerie di palazzi di 6 piani è impresa disperata».

Di cosa ha bisogno la popolazione?

«Di tutto, in primis di alloggi sicuri. Per non dormire in strada molti preferiscono tornare in edifici fatiscenti. Il sostegno maggiore viene dai frati francescani che per un mese hanno accolto nelle loro strutture almeno 3mila persone mentre il campo dell'Onu ne può ospitare qualche centinaio. Tuttora i religiosi preparano 1200 pasti al giorno per chi ha perso tutto. Ad Aleppo, che conta almeno 2 milioni di abitanti, servono medicine, cibo e lavoro».

Quali immagini rimarranno indelebili nella sua memoria?

«Alcuni segni di speranza, come i bambini che ridono nelle strade. Molti di loro sono nati in guerra, quindi intere generazioni non hanno conosciuto la normalità. Mi hanno colpito anche due ventenni: un ingegnere e un architetto che, appena laureati, hanno deciso di restare in prima linea, perché desiderano aiutare la loro gente e sostenere la ripartenza».

Cosa l’ha spinta ad aderire all’iniziativa, nonostante i rischi?

«Ho già vissuto esperienze analoghe a fianco della Protezione civile. Quando è giunta questa richiesta da un amico mi è parso normale dire “sì”. A lanciare l’allarme è stato un padre francescano. La sua non era una richiesta generica: in Siria occorrevano numerosi professionisti, ossia architetti, ingegneri e tecnici, per stilare una valutazione degli immobili danneggiati, ma soprattutto dei pericoli imminenti. Amministratori e religiosi ci chiedevano conferme e di spiegar loro se gli interventi procedessero nel modo giusto. Da un punto di vista umano ed etico mi è stato impossibile rifiutare, nonostante i rischi. I sopralluoghi sono avvenuti in sinergia con colleghi siriani, su richiesta anche delle 11 confessioni cristiane presenti. È stato naturale mettere a disposizione degli altri le mie competenze e l’esperienza maturata».

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