L'Aragosta di Gabellini a San Mauro con Francesca Airaudo

Territorio, incontri casuali ed elettivi, idee che si rincorrono, sollecitano progressi creativi che si vivificano sul palcoscenico. Così due riccionesi amici dall’infanzia, lo scrittore Francesco Gabellini (1962) e l’attrice Francesca Airaudo (1966), si sono ritrovati con una aragosta in mano che parla in dialetto riccionese, e la raccontano a teatro. Avviene stasera alle 21, nella sammaurese Villa Torlonia, dove Francesca Airaudo (compagnia Teatro del Serraglio, oggi Città Teatro), presenta il monologo L’aragosta, testo in lingua romagnola scritto da Francesco Gabellini, ancora in forma di studio. La produzione si avvale della veste creativa di oggetti di scena dell’inglese Paul Mochrie (per 25 anni stilista per Iceberg), per la regia di Davide Schinaia. Alla fine, attrice e autore conversano insieme al pubblico del loro sodalizio artistico.

Francesca, come le è arrivata questa aragosta dal mare di Riccione?

«Arriva da lontano, da un’amicizia antica con Gabellini che rincontrai nel 2005 finalista al Premio Riccione con “L’ultimo sarto” quando ero in segreteria. Da allora lo sollecitai a scrivere un testo per una donna e lui mi portò “La custode”. Più di recente gli rinnovai la richiesta di un nuovo testo per una donna. Un dì “Checco” mi dice: stamattina alle 7 per strada con il cane, ho ascoltato una donna che, in bicicletta, dettava al cellulare una lettera con punteggiatura. Qualche mese dopo mi spedì l ’Aragosta».

Non è facile recitare in dialetto per chi come lei non è cresciuto parlando il romagnolo.

«Al dialetto mi sono avvicinata una quindicina d’anni fa, è vero che non lo parlavo, ma sono cresciuta in una casa di dialettofoni; ancora oggi i miei, 91 e 92 anni, fanno veglie in dialetto insieme a mio zio. A un certo punto l’ho voluto parlare in scena».

Qual è la nota distintiva del testo?

«Rispetto ai precedenti di Gabellini, qui la tragedia umana prende il sopravvento, è più drammatico. C’è una signora che sta dettando il testamento dopo la morte del marito e racconta di sé, della sua vita triste di donna operaia che ha lavorato senza soddisfazioni, sta vivendo una sorta di delirio e non è chiaro se abbia amato o no il consorte, ma dice: “Noi due non siamo mai stati una coppia da baci, abbracci, carezze, perché non avevamo tempo”. Il tutto alternato da parentesi che tendono a una leggerezza».

Quali sviluppi assume la vicenda?

«Si tinge di giallo quando la donna riceve un pacco con dentro un’aragosta viva. Ho chiesto all’autore: perché una aragosta? Lui mi ha risposto: non lo so. Non c’è un perché, ma il fatto di ricevere in dono il crostaceo, la spinge a un dialogo di immaginazione in cui elucubra ragioni del perché proprio lei, che ha mangiato solo pesce azzurro e poverazze, ha ricevuto un’aragosta. Mentre è immersa in una solitudine profonda; commenta che se muore non fa differenza perché nessuno se ne accorge, e si è rinchiusa in casa mentre la sta svuotando di tutto».

La sente come una prova d’attrice?

«Il testo lo richiede in quanto la protagonista da un lato procede drammaticamente verso un abbandono di sé, dall’altro il testo si allarga ad aperture che diventano una sfida, dal dramma esistenziale a momenti più leggeri e sorprendenti. L’insieme è asettico, essenziale, io sono in tuta bianca, lontano da un’idea di scena “dialettale”».

Biglietti da 15 a 12 euro.

Info: 370 3685093

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