Keiko Shiraishi, la scenografa che ha conquistato l'Emilia-Romagna

RIMINI. Cosa si nasconde dietro le quinte di un’opera teatrale? Lo racconta Keiko Shiraishi, la scenografa che mantiene in vita una tradizione secolare e di eccellenza tutta italiana, quella della pittura dei fondali e della realizzazione delle scene. Una donna guidata da passione, tenacia e curiosità: l’amore per l’arte in tutte le sue forme e la voglia di buttarsi di fronte a qualsiasi occasione la orientano fin da piccola alla ricerca della sua strada, e dal Giappone la portano in Italia, a Modena, dove da anni realizza con tecniche antichissime gli allestimenti per artisti assoluti e teatri di tutto il mondo. Nel nostro Paese Keiko ha trovato anche l’amore: da anni vive a Rimini con il marito Nevio Cavina, lighting designer, tra i fondatori della Compagnia del Serraglio di Riccione.
Shiraishi, com’è nata la sua passione per la scenografia?
«Sono figlia unica, nata in Giappone, mio padre faceva l’ingegnere per Toyota, mia madre faceva la disegnatrice tecnica, collega di mio padre. Lei aveva una forte vena artistica, fin da piccola mi portava ovunque (concerti, spettacoli teatrali…) per investire sulla mia sensibilità. Mi sono avvicinata all’arte frequentando la scuola di musica Yamaha, a diciotto anni mi sono diplomata come organista. Dalla musica mi sono appassionata a tutto il mondo artistico. Mi ero iscritta alla compagnia teatrale del liceo, lì mi piaceva il dietro le quinte dello spettacolo, non la recitazione. Così ho cominciato a gestire le luci nei teatri di provincia».
Com’è stato l’arrivo in Italia?
«Arrivai a Roma nel ’93, avevo ventitré anni. Ho trovato un ambiente molto rigido e chiuso, ma io ero curiosa e pian piano ce l’ho fatta. Mi ero iscritta all’Accademia delle Belle Arti, ma lì facevano tanta teoria, io volevo un’esperienza concreta, entrare al Teatro dell’Opera. Ho cominciato a bussare, per sei mesi ho chiesto di poter fare un tirocinio e il mio appuntamento veniva sempre rimandato. Poi mi hanno permesso di entrare come osservatrice. Tutti pensavano che mi sarei stancata. Invece sono rimasta».
Poi le si è aperta un’altra porta e si è trasferita in Emilia-Romagna…
«A Roma ho conosciuto Edoardo Sanchi, grande scenografo romagnolo. Io volevo imparare a dipingere fondali, che è considerata la parte più nobile della pittura scenografica, Sanchi mi ha detto: “Se ti interessa ti faccio conoscere la persona giusta”, e mi ha portato dal maestro Rinaldo Rinaldi, di Modena. Così sono andata via da Roma. Sanchi aveva una casa a Rimini, ci andavo spesso. Sembrava di essere in un altro paese rispetto a Roma. L’Emilia-Romagna mi sembrava ricchissima».
Cosa la affascina di più del suo mestiere?
«Lo scenografo è come un direttore d’orchestra: riceve un’opera, fa la sua lettura, poi la deve trasmettere a ogni singolo musicista, farla suonare, il pubblico dovrà sentirla com’era stata immaginata. Il bozzettista affida a me il suo progetto ma io devo renderlo visibile per il pubblico, tutto dipende dalla mia sensibilità. Devo far capire alla mia squadra non solo che tipo di pennello o tessuto usare, ma soprattutto quale sensazione trasmettere. Anche se dobbiamo dipingere un muro bianco, dobbiamo sapere se si tratta di un muro per una tragedia o una commedia, perché quel muro può trasudare tristezza o allegria. Sono due muri bianchi diversi. E questo è solo un pezzo del puzzle che compone il teatro. Sono una piccola parte di un ingranaggio. Io non sono diventata ricca ma ho fatto quello che volevo, sto facendo quello che voglio. Non so se posso chiamarlo lavoro il mio, perché per me è passione. Grazie alla quale sono diventata resistente, aperta a tutto e sempre curiosa».

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