"Ivan 25", al Mei il viaggio nel cantautorato di Filippo Graziani

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Dedicati a Ivan Graziani, scomparso proprio 25 anni fa, i 25 anni del Mei – Meeting delle etichette indipendenti. La più importante rassegna della musica indipendente italiana, ideata e coordinata da Giordano Sangiorgi, darà il via ai suoi live il 1° ottobre con l’omaggio al cantautore abruzzese che scelse di vivere in Romagna, realizzato dalla band guidata dal figlio Filippo Graziani, formata da Marco Battistini al basso e synth, Massimo Marches alla chitarra, Tommy Graziani alla batteria e Mattia Dallara al synth. Inoltre, il Mei dedicherà una speciale figurina per omaggiare Graziani, prodotta da Figurine Forever.

Nato a Rimini, cresciuto tra chitarre e serate dal vivo nei locali, Filippo Graziani si è trasferito per qualche tempo a New York per poi tornare in Italia e omaggiare a più riprese la produzione musicale di un gigante: suo padre. Col suo tour Ivan 25 propone i brani del repertorio di Ivan a 25 anni dalla sua scomparsa, in un viaggio musicale attraverso ironia, riflessioni sulla realtà e canzoni che hanno fatto la storia del cantautorato italiano.

Graziani, quale significato assume questo Mei in un momento così difficile per la musica e soprattutto per la canzone d’autore?

«Manifestazioni come il Mei sono l’àncora di salvezza per il mondo del cantautorato italiano, che sta passando un periodo abbastanza complesso; questi luoghi sicuri, queste isole dove ognuno si può esprimere, sono estremamente importanti per chi decide di fare questo lavoro. Certamente in questo momento la musica e la canzone d’autore non appaiono al centro delle preoccupazioni della discografia. Trovo però che ci sia, me ne rendo conto parlando con tante persone ai concerti, una voglia di risentire canzoni d’autore che offrano significati e valori, che diano qualcosa di più».

Perché il tour “Ivan 25” è come «un viaggio musicale» che lo vuole abbracciare dal primo all’ultimo disco?

«Dentro un repertorio che è molto ricco proponiamo canzoni anche meno conosciute, ma che diventano storie meravigliose se vengono cantate. Un repertorio da cui non si scappa. Avevo decenni fa una band con cui facevo musica stoner in inglese, e c’era sempre qualcuno che mi chiedeva Monna Lisa. Questo significa che se non puoi scappare da una cosa devi abbracciarla».

C’era una malinconia che toccava a volte le vette del sublime nelle sue canzoni, ma anche un’ironia corrosiva…

«Si conciliano in modo perfetto, come due lati di una stessa medaglia, da un lato la disperazione e la malinconia, dall’altra la dose di cinismo e sarcasmo con cui guardava la società, come in una sorta di “yin” e “yang” della psiche, con cui descriveva personaggi al limite, ai margini della società. Non si schierava politicamente con le sue canzoni, ma piuttosto nel sociale, cantando contro la pigrizia mentale e gli atteggiamenti più conformisti e retrivi, come in Maledette malelingue, lo faceva da intellettuale ma in modo molto sottile. Per lui era importante il linguaggio. Parole come “droga”, “sangue”, “violenza”, le chiamava con il loro nome. Oggi avrebbe sicuramente delle difficoltà con il politicamente corretto».

La sua più grande lezione: «Non ha mai smesso di suonare fino alle fine… È sepolto con la chitarra in braccio, come i guerrieri dell’epoca pagana, con la loro arma in mano»…

«Il suo insegnamento è stato far parte di questa famiglia di guerrieri che macinano chilometri con le loro armi; la batteria per mio fratello Tommy, per me la chitarra».

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