Seconda tappa del tratto romagnolo del Sentiero Italia insieme al Cai di Cesena attraverso la “spina dorsale” del Belpaese per scoprire a passo lento tracciati tra natura e storia

Itinerari
  • 26 aprile 2024

Per imboccare il sentiero 173 si attraversa il piccolo centro di Verghereto, una cresta sugli 800 m di altitudine sotto al quale con un tunnel passa l’E45. Come gran parte dei paesi montani posti su creste o cocuzzoli, l’origine va trovata nel pieno medioevo. Qui sappiamo che San Romualdo (quello di Camaldoli) fondò il monastero di San Michele Arcangelo. Tracce non ne sono rimaste ma ci pensa la leggenda a condire il tutto: si dice che il toponimo Verghereto venga dalle “vergate” che i monaci diedero al povero Santo per scacciarlo a causa delle regole troppo ferree che aveva imposto! La storia, dal medioevo con i Conti Guidi fino all’epoca moderna nel Granducato ci ha consegnato un borgo un tempo fortificato posto in posizione strategica vista la posizione di passaggio. Leggende e percorrenze storiche sono il sale di questa tappa del Sentiero Italia Cai. Lasciate le ultime case si resta affascinati dal percorso in discesa, fiancheggiato da muretti a secco e selciato, in rapida discesa tra rimboschimenti ci si trova improvvisamente in una spettacolare gola dai colori lunari solcata dal Fiume Savio e uno straordinario ponte in pietra con al termine sulla destra una maestà del 1829. Si attraversa risalendo prati e rade alberature di frutti, sopra affioramenti marnoso arenacei fino ad incunearsi in una mulattiera che conduce attraverso pascoli e filari al mistico borgo di Montione (766 m), un luogo che non ti aspetti: cosa ci fa qui in mezzo un piccolo paesino documentato dal 1296, che conta un solo abitante ma che sa offrire alcune pregevoli perle? Ci si imbatte subito nell’oratorio dedicato a San Pietro Apostolo risalente al 1602 al cui interno si nota una porzione di affresco raffigurante una Madonna che allatta il Bambino di un anonimo pittore tardo-gotico. Pochi passi e, lasciata una dissetante fonte sulla destra, il sentiero varca un pregevole voltone in conci d’arenaria del XVII secolo a mo’ di porta d’accesso con una sovrastante casa di guardiania oggi bivacco accessibile previa richiesta al Comune di Verghereto. Si scende per circa un centinaio di metri d’altitudine lungo una comoda mulattiera fino ad oltrepassare con il bel ponte in pietra a tutto sesto sulla gola del Fosso Pian Martino. Poi si comincia la lunga salita, faticosa nei mesi estivi perché spesso assolata: si oltrepassano i ruderi di Vado e si conquista pian piano i 500 metri di dislivello da colmare, lungo un tracciato vario spesso dai segni incerti e dalle numerose biforcazioni con tracce e passaggi funzionali alla gestione forestale, fino a quando un bosco di roverelle e aceri montani apre il sipario alla faggeta finale e compare il segnavia del Passo Rotta dei Cavalli (1167 m). Toponimo incerto, nella tradizione popolare associato ad una disfatta dell’esercito veneziano da parte dei fiorentini nel 1498. Tale valico era parte della mulattiera medievale (ancora visibile su entrambi i versanti) che collegava Bibbiena a Verghereto.

Ora siamo sul crinale, il mitico “00” e la brezza dello spartiacque la si avverte fino talvolta al fastidio. Leggeri saliscendi portano ad uno spazio con macchia diradata e con verdissimi tappeti di felci, accesi e morbidi d’estate, rinsecchiti e schiacciati al suolo d’inverno. Si lambisce con un ampio semicerchio la sommità del Montalto, così senza fare salite e poco oltre allo stesso modo si evita sul versante romagnolo la Punta dell’Alpuccia. A volte il sentiero è su una sorta di lama perché l’erosione ha lavorato davvero e così si capisce la precarietà del nostro Appennino: erroneamente tanti pensano che sia la vetustà di queste cime a non farle svettare, in realtà sono ben più giovani delle Alpi ma fragili davanti al vento e alla pioggia che ne disfa creste e versanti nel corso dei secoli. Si giunge all’intersezione con il 117 a quota 1102 che di lì a poco conduce al Passo di Serra (valico della via Romea Germanica) poi all’insediamento di Nasseto verso le Gualchiere con il celebre mulino: vengono i brividi a scorgere, in luogo così ameno porzioni di selciato antichissimo e riflettere su quali e quanti calzari abbiano calcato tale trama lapidea visibilmente consunta e come tali interventi antropici possano perdurare tanti secoli in questo ambiente impervio. Quelle pietre hanno visto secoli di viandanti, imperatori e re, santi, eserciti, briganti e fuggiaschi, pellegrini da ogni dove verso i luoghi della cristianità. Qui e solo qui si poteva passare, fino al 1882 quando si tagliò il nastro dell’ardito Passo dei Mandrioli. Con la mente assorta dalla memoria di questo luogo si lascia le gambe andare leggere sul tracciato che compie un lungo semicerchio a nord est, lambendo il monte Zuccherodante e a tratti compaiono distese di felci contornati da carpini e macchia mista di faggi, roverelle, ornielli: la biodiversità regna e si interseca con i pesanti rimboschimenti di pini neri del dopoguerra. Il sali-scendi conduce al Passo dei Mandrioli (1173 m). Entriamo nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Falterona e Campigna. Si mantiene la sinistra, senza toccare la strada perché si imbocca subito il sentiero che scende dolcemente e introduce in uno scenografico bosco di altissimi abeti bianchi, che oscurano il cielo: da sempre legni pregiati, sia per l’Opera del Duomo di Firenze, sia per gli alberi delle navi al porto di Pisa, hanno rappresentato il legame economico e sociale tra queste terre e la potenza fiorentina. Dopo essere scesi di quasi 300 metri fiancheggiando un rio, ci si trova in una faggeta che termina in una segheria della quale si varca il cortile per poi trovarsi nella strada della Val di Corezzo che in 3 km conduce all’abitato di Badia Prataglia e ai suoi due tesori: la millenaria Abbazia dedicata alla SS. Assunta e a S. Bartolomeo e l’arboreto e museo Carlo Siemoni, ingegnere forestale boemo chiamato ad amministrare le foreste casentinesi nel 1837 dal Granduca di Toscana Leopoldo II. La visita consente di comprendere la genesi dell’assetto forestale odierno del Parco.

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