Su e giù per l’Appennino romagnolo, per non dimenticare. In sella alla propria specialissima è possibile infatti un viaggio della memoria là dove un tempo correva la Linea Gotica, toccando alcuni dei luoghi simbolo degli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ovvero Tavolicci e il passo del Carnaio, teatro di due brutali eccidi compiuti, nel luglio del 1944, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, dalle truppe nazifasciste.
Alla crudeltà umana fa da contraltare la bellezza dei paesaggi, attraverso una natura spesso incontaminata, dominata da boschi, calanchi, torrenti, cascate, e punteggiata qua e là da borghi, chiese e castelli. La prima meta è Tavolicci, incastonata nell’Alto Savio, fra Romagna, Marche e Toscana, in una zona quasi completamente disabitata e non facilmente accessibile. Per arrivarci, occorre risalire da Cesena la vallata del Savio, percorrendo la Strada regionale 71 sino a Sarsina, città natale di Tito Maccio Plauto, ritenuto il più importante commediografo dell’antica Roma. Dal paese si prosegue ancora per un paio di chilometri, toccando il Parco delle Marmitte dei Giganti, un’area di 30 ettari caratterizzata da un peculiare fenomeno geomorfologico, unico in Emilia-Romagna e raro in Italia: l’acqua, con la sua potenza, da millenni trascina detriti che con la loro azione erosiva scavano e formano nella roccia arenaria cavità ellittiche associate, dalla fantasia popolare, a enormi pentole utilizzate, appunto, dai giganti per scaldare il proprio cibo. Le più suggestive sono le Marmitte di Rio Montalto, dove l’acqua vortica in tre diverse marmitte per poi precipitare in una cavità, incanalarsi in una galleria interna e, dopo un ulteriore salto, gettarsi nel fiume Savio, in un gioco unico e spettacolare. Lungo la Strada regionale 71, si incrocia il sentiero di circa 130 metri che porta al Fosso Molinello e alle Marmitte di Rio Montalto. Il parco comprende, tuttavia, anche le Marmitte di Rio Crocetta, circondate da una ricca vegetazione, fra cui acero, cerro, frassino, ontano earbusti come biancospino, corniolo, pungitopo, ginepro, equiseto. Tanti pure i fiori, con diverse specie di orchidee selvatiche, ciclamini, anemoni e viole e primule. Poco oltre l’accesso alle Marmitte (località Molino Saraffa), si lascia la Strada regionale 71 per girare a sinistra e imboccare la Strada provinciale 135, seguendo le indicazioni per Tavolicci, distante 13 chilometri. Si scende per qualche centinaio di metri, affrontando un paio di ripidi tornanti, quindi, giunti al ponte, si attraversa il fiume Savio e si attacca la salita della Sella della Rocchetta, tanto poco conosciuta quanto affascinante.
Si tratta di un’ascesa che esalta gli scalatori, con diversi strappi in doppia cifra e una pendenza che non scende quasi mai sotto il 7%. Quella media, non a caso, si attesta su un significativo 7,5% mentre la massima arriva al 12%. Anche lo sviluppo chilometrico è di tutto rispetto (8,6 km), come il dislivello, pari a 600 m. A ripagare dalla fatica, lo scenario in cui si svolge la scalata, aspro e selvaggio, con ampie vedute su Sarsina, la valle del Savio e le cime circostanti. A metà percorso, in particolare, si taglia a mezza costa la montagna, con la strada sovrastata a sinistra da imponenti formazioni rocciose, mentre a destra forma una sorta di balcone naturale da cui si gode un panorama unico. Superato il ponte, si fa subito sul serio: il nastro d’asfalto (nel primo chilometro appena rifatto) s’impenna, incuneandosi in un boschetto di latifoglie, con pendenze fra l’8-9%. Successivamente, si esce allo scoperto e si respira un po’. Da qui, poco più in alto, si può ammirare la possente mole del Castello di Casalecchio, l’unico nella Valle del Savio. La fortezza, conosciuta anche come il palazzo delle cento finestre, nacque in età medievale come presidio militare, per conoscere poi nel tempo numerose trasformazioni. Nel 1420, passò definitivamente ai conti Bernardini di Rimini che lo tramutarono in un’elegante residenza nobiliare, incorporando nell’edificio le mura di cinta, ora visibili, in parte, a valle. Dopo il 19 agosto del 1800, quando morì la Contessa Antonia, ultima discendente della nobile casata, il castello fu nuovamente convertito e prese le sembianze di una casa colonica. La struttura, comunque, conserva ancor oggi un grande fascino: l’androne colpisce per la volta a botte su cui sono distinguibili alcuni affreschi, fra i quali lo stemma dei Conti, con il leone al posto dell’aquila, e immette nel cortile, da cui si accede direttamente, a sinistra, nell’oratorio privato, dedicato a San Nicola, che delimita parte della corte, raccolta in una intimità quasi claustrale, con l’agile campani letto a vela e l’antico pozzo cisterna. La cappella ospita le spoglie del conte Achille Bernardini, mentre all’interno dell’edificio merita una visita l’ampio salone, di circa 70 metri quadrati. Il bianco delle pareti ha purtroppo nascosto i pregiati affreschi, ma nulla ha potuto contro il superbo camino cinquecentesco di pietra, pressoché intatto, dove campeggia fra eleganti decorazioni scultoree il bellissimo stemma comitale (con due lecci, due aquile e tre stelle), sopravvissuto al tremendo saccheggio del secolo XVII, quando i soldati pontifici richiamarono all’ordine lo spavaldo Scipione Bernardini, costretto a riparare in Toscana, nel vicino “granducale” Monteriolo. Giusto il tempo di osservare il Castello e le pendenze tornano arcigne, con una rasoiata che sfiora la doppia cifra, a ridosso di una paretei marnoso arenacea. La salita molla un po’ intorno al km 3, proprio in coincidenza dello stradello che in 200 metri conduce al Castello, ma è un’illusione perché poi ci si deve alzare sui pedali per affrontare 300 metri al 10%. Si giunge così a un bivio (Km 4) dove occorre tenere la destra, proseguendo sempre in direzione Tavolicci. Inizia qui il segmento più duro, 2,5 km quasi in apnea, visto che sono tutti fra l’8 e l’11%, con la strada che taglia diagonalmente la montagna. Solo intorno al km 7 la pendenza si fa più accettabile, abbassandosi al 6-7%. Superato il fabbricato Belvedere, breve tratto in falsopiano prima dei 200 metri finali al 6% che consentono di conquistare la cima, a quota 806 m. A scandire la scalata, 11 tornanti, concentrati all’inizio e alla fine. Per il resto la strada procede tortuosa in mezzo a boschetti, prati, campi coltivati e pascoli, con tratti ombreggiati e altri allo scoperto, in una zona quasi completamente disabitata. Raggiunto il culmine, si prosegue lungo la provinciale 135 per altri 4,7 km, a volte in discesa altre riprendendo quota, sino, a Tavolicci, tristemente famosa per l’eccidio consumato il 22 luglio 1944, quando i volontari del IV Battaglione della polizia nazifascista trucidarono 64 civili, di cui 19 bambini sotto i 10 anni: la “strage più raccapricciante e numericamente consistente della Romagna”. Con una deviazione a sinistra, tutta all’insù, si può raggiungere la casa in cui si consumò la rappresaglia, oggi sede del Museo Casa dell’eccidio di Tavolicci, che ospita la mostra fotografico-documentaria “Stragi e uccisioni in provincia di Forlì-Cesena” e opere d’arte di vari artisti, mentre alcune stanze sono state allestite al fine di ricostruire ed evocare la vita quotidiana delle popolazioni di montagna.
Superata Tavolicci, si prosegue con percorso ondulato fino a incrociare la sottomontana del Fumaiolo (Strada provinciale 130); al bivio, si prende a destra, seguendo le indicazioni per Alfero. Si attraversa Pereto, piccolo paese di 11 anime, con una bella chiesa in pietra, dove vengono conservati i resti della Beata Agnese, che dà il nome alle Terme di Bagno di Romagna. Originaria di una famiglia patrizia di Sarsina, convertita al Cristianesimo e votata a Dio, Agnese, dopo essere stata promessa sposa ad un pagano, scappò trovando rifugio proprio a Pereto. Qui si ammalò di scabbia, ma grazie ad una sorgente poco distante guarì e ancor oggi le campane della chiesa suonano ogni giorno per ricordare la sua storia. Dopo una breve ascesa, si cala su Para e si torna salire, per 6 chilometri, verso Alfero, incontrando, in prossimità del paese, il sentiero che conduce alla Cascata dell’Alferello, detta anche Cascata di Alfero o Cascata delle trote, uno dei più belli e affascinanti salti naturali di Romagna. Completamente immersa nella natura, la cascata è alta circa 30 metri: la roccia liscia e stratificata sembra crearle tutt’intorno un vero e proprio anfiteatro, mentre il calcare arenaceo su cui il fiume scivola e i massi levigati a pelo d’acqua concorrono a creare un’atmosfera fiabesca. Scendendo a valle, il torrente ha poi scavato una serie di marmitte di erosione, molto suggestive e, ancora più giù, un gorgo profondo, chiamato “il Pozzo”, ideale in estate per tuffarsi e nuotare. Una volta raggiunta Alfero, le fatiche non sono ancora finite, visto che occorre guadagnare il passo dell’Incisa, prima di tuffarsi verso San Piero, approfittando del manto stradale appena rifatto.
I 10 chilometri di discesa lungo la Strada provinciale 43 presentano anche qualche tratto in falsopiano, in particolare quando si attraversa Acquapartita (747 m), posta ai margini dell’omonimo laghetto, alle pendici del monte Comero. Giunti a San Piero in Bagno, una visita è d’obbligo. Sorto nel XIII secolo come “mercatale” del sovrastante castello di Corzano, il centro dell’Alto Savio si è sviluppato sotto la lunga dominazione fiorentina. Fra ‘800 e ‘900 l’eclettico architetto fiorentino Cesare Spighi ha dato al paese un’impronta elegante, progettando e costruendo la Chiesa parrocchiale, il palazzo scolastico, il monumentale cimitero e il palazzo Rivalta Paganelli, con pietra unita al laterizio. Di epoca settecentesca sono invece i due ponti, sul Savio e sul Rio, e i bei palazzi affacciati sia sulla piazza centrale, dove si svolge l’affollato mercato settimanale, sia lungo le principali vie, a costituire un tessuto urbano di marcata impronta toscana. Usciti da San Piero in direzione Sarsina, si percorre per un breve tratto la Strada regionale 142 e si svolta a sinistra nella Strada provinciale 26 (indicazioni per Forlì/S. Sofia). Pronti via, si inizia subito a salire. In appena 4 chilometri (l’ultimo, in leggera discesa, non è da considerare), infatti, si devono coprire ben 315 m di dislivello, tant’è che la pendenza media arriva al 7%, con punte del 15%. Il primo chilometro, dritto come un fuso, è il più semplice, ma presenta comunque un’inclinazione del 6%, coi primi 500 m all’8%. Il bello inizia in corrispondenza della piccola frazione di San Paolo, caratterizzata da un fabbricato rurale e un piccolo edificio di culto, perché da qui in avanti la strada si inerpica, disegnando una serie di tornanti, ben otto, tutti piuttosto ravvicinati, brevi e secchi, separati da rampe micidiali. Intorno al km 2,3 si attraversa una piccola abetaia, con un tornante improvviso a destra cui prestare attenzione, per il resto la vista può spaziare dalla sottostante vallata del Savio all’imponente massiccio del Monte Comero fino al crinale tosco-romagnolo. Scalato il 7° tornante (km 2,6), occorre affrontare ancora un chilometro buono al 9%, quindi si superano gli ultimi 3 tornanti e il più può dirsi fatto, visto che per raggiungere il passo (760 m) si procede in falsopiano e da ultimo in leggera discesa. Proprio nel punto in cui la strada inizia a spianare, si incrocia il tempietto eretto a ricordo delle vittime dell’eccidio del Carnaio, 26 cittadini di San Piero in Bagno sterminati il 25 luglio 1944 dai militi della polizia nazifascista. Nelle notti del 23 e 24 luglio, tre militari tedeschi erano stati uccisi dai partigiani proprio lungo la strada che collega San Piero in Bagno a Santa Sofia. Il 25 luglio, reparti appartenenti al IV Battaglione di Polizia italo-tedesca, lo stesso responsabile della strage di Tavolicci, e la Guardia del Duce della Rocca delle Caminate, formazioni impegnate nella “lotta contro le bande”, si abbandonarono così a una crudele rappresaglia. Intorno al passo del Carnaio, decine di case coloniche vennero incendiate, distrutte, saccheggiate e i loro abitanti trascinati a forza sul passo: in tutto, una settantina di persone, per la maggior parte donne e bambini. Il rastrellamento proseguì per l’intera giornata, anche nei paesi in valle, con le truppe nazifasciste che prelevarono addirittura alcuni anziani dalla casa di riposo di San Piero per raggiungere il numero di ostaggi prefissato. Prima dell’arrivo dei camion da San Piero, sette uomini catturati già al mattino furono fucilati sul passo del Carnaio, in un campo scosceso vicino alla strada, in prossimità di una quercia solitaria. Agli ostaggi di San Piero toccò poco dopo la stessa sorte, mentre donne e bambini furono lasciati andare. Al termine dell’operazione, sul passo si contarono 26 morti, compresi don Ilario Lazzaroni, un ex cappellano militare sfollato a Montegranelli, che aveva cercato di raggiungere il comando tedesco per trattare e venne abbattuto da una raffica di mitra, e un ragazzo impiccato a un palo telegrafico per aver tentato la fuga. I cadaveri furono sommariamente sepolti il giorno seguente proprio nei pressi della quercia, dove rimasero fino al settembre 1945, quando vennero riportati a San Piero. Dal passo del Carnaio, per chiudere l’anello, è possibile calare a Santa Sofia, discendere la valle del Bidente fino a Meldola, proseguire per Forlimpopoli e, una volta qui, imboccare la via Emilia sino a Cesena.