Isola delle Rose, il film: lo abbiamo visto in anteprima per voi

Archivio

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose non ha in realtà molto di incredibile. E non è la storia dell’Isola delle Rose. È un’altra storia. E fin qui nulla di male. Tutt’altro. Poco importa che il regista Sydney Sibilia e la produzione (la Groenlandia, con Matteo Rovere) abbiano rimescolato le carte della vicenda che ebbe per protagonista, sul finire degli anni Sessanta, in quel pur sempre “mitico” anno Sessantotto, l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, che non più giovincello neo ingegnere (come invece lo rappresenta il film, con tanto di goliardate vitellonesche in salsa bolognese) ma già quarantenne, dopo essere riuscito a costruire al largo di Rimini una piattaforma di quattrocento metri quadri e avendola chiamata Isola delle Rose, si mette in testa (e non perché un adepto del verbo imperante della “immaginazione al potere”) di proclamare quel luogo Stato indipendente.
Allergico alle regole di una democrazia tutto sommato balbettante e nascente, tendenzialmente apolitico e apartitico, a tratti “uomo qualunque” e (come dargli torto) nemico della burocrazia, Giorgio Rosa poco aveva a che vedere con il Sessantotto e le sue “rivoluzioni”. Ma si sa, lo spirito del tempo… Quando il vento è quello, facile anche che finisca che tutte le vacche siano nere (o rosa, in questo caso).
Abbastanza insomma per trasformare la vicenda nella storia dell’estate e dei mesi seguenti. Abbastanza per trasformarla in un “mito” libertario di cui si interessa la stampa nazionale e internazionale. Il mito affascina, il mito strega, e resta attaccato a quella vicenda.
Ci si dimentica quindi presto che su quella piattaforma, più che farci una riserva libertaria per i figli dei fiori (peace & love non pare fosse nel vocabolario dell’ingegner Rosa, figuriamoci sesso, droga e rock & roll), il nostro sognava forse di sistemarci borghesi arricchiti dal boom economico, che immaginava probabilmente in appartamenti distribuiti su cinque piani con eccezionale e unica vista mare (non era poi questo anche il sogno, promesso e lasciato vagheggiare, sempre a Rimini, sempre in quegli anni, dal già nato e non distante grattacielo?).
Visionario certo, l’ingegnere. E bizzarro assai, certamente. Ma nei sogni, verrebbe da dire, non più che un aspirante palazzinaro. Uno che stava vedendo lungo, e quanti come lui – stessa più o meno generazione (era nato nel 1925), dosi di spericolatezza, voglia di fare a qualunque costo, allergia per i troppi lacci e lacciuoli – , vedevano lungo in quegli anni (o quanto meno aguzzavano l’ingegno o una specie di istinto primordiale), e seppure non abbiano poi costruito piattaforme al largo, ma “imperi” alberghieri e via per li rami, erano spinti dallo stesso spirito di azzardo e follia?
Ma il Giorgio Rosa dell’Incredibile storia dell’Isola delle rose allora? Diciamo subito che diverte il sempre ottimo Elio Germano. Nella parte iniziale del film è un ingegnere fresco di esame di Stato goliardicamente festeggiato dalla combriccola di amici in osteria. Né uno Zuckenberg, né uno Steve Jobs in versione nostrana. Del genio c’è, però: nell’automobile che si costruisce da sé (in garage?) e di cui fa sfoggio con la ragazza dei suoi sogni (Matilde De Angelis), una lei molto piedi a terra e poco propensa alle goliardate. In una Bologna notturna e deserta – lui un incrocio tra Marty McFly e il Doc di Ritorno al futuro – vengono fermati dalla polizia: fine del sogno e del love affaire (per ora). Per il giovane Rosa l’occasione per continuare a sognare arriva alla vista di un manifesto pubblicitario della Misano Petroli che nel disegno di una piattaforma in mare annuncia la nuova frontiera per il carburante italiano: la notizia lo alletta a tal punto che, improvvisato assistente di gara a Imola, provoca un disastroso fuori pista a uno dei corridori. Sulle note (improbabili e dissonanti) di Hey Joe di Jimi Hendrix, il nostro ha trovato dove andare a continuare la propria corsa.
Si arriva così sulla Riviera romagnola, a Rimini. E qui, con l’amico Maurizio (Leonardo Lidi) che lavora al cantiere navale di famiglia (uno stinco di santo che ruba i soldi al padre e incolpa gli operai calabresi), decide di imbarcarsi nel progetto con cui prendere in mano la propria vita e assicurarsi un radioso futuro: un’isola in mezzo al mare, «dove fare quel cazzo che ci pare». Da vitelloni a pataca, il passo è breve insomma. E l’isola – che viene su in un mare piatto che solo una volta costruita la piattaforma (un solaio in cemento) manifesterà una certa furia – si trasformerà in molto prosaica terra promessa: una discoteca, un Papeete Beach ante litteram.
I guai iniziano quando Giorgio si rende conto che la patacata non è sufficiente per conquistare la sua bella («Ma è una discoteca» gli dice: dal ché inizia per il nostro il cammino verso l’autocoscienza) e allora fa l’upgrade al sogno: «Ma a cosa serve – si chiede – se non ci riconoscono come nazione indipendente?». Un nuovo fronte di battaglia, che sposta il nemico dalla burocrazia amministrativa alla ragion di Stato. Dove lo Stato è però una macchietta (come lo sono tutti i livelli istituzionali del film, dal Consiglio Europeo all’Onu), raffigurato dalle maschere grottesche di un ministro degli Interni interpretato da Fabrizio Bentivoglio e un primo ministro (Giovanni Leone) che ha le fattezze (quasi irriconoscibili) di Luca Zingaretti.
Inetto, goffo, ridicolo persino nel pedigree che rievoca il passato costituente, e ovviamente di natura perfida e violenta nell’andare a guastare le feste ai nuovi paladini della libertà, c’è uno Stato in realtà da riso amaro dietro agli sberleffi della commedia. E se risibile è il finale del film sulle note e parole di Eve of destruction di Barry McGuire – inno dei giovani contestatori nell’America ed Europa dei Mid Sixty –, più azzeccata sembra in realtà Sole spento, hit di Caterina Caselli, inserita nel finale. Sarà vero che la commedia fa sorridere, ma l’impressione è che il sole, anche se c’è, è spento.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui