Intervista a Claudio Baglioni: «L'umanità ha smarrito la sua qualità migliore: l'essere umana»

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E si ricomincia sempre daccapo, in un infinito tessere e disfare, partire e tornare. La vita dell’artista è così: un nuovo disco, un nuovo tour, un nuovo progetto. Piacerà? Non piacerà? E dopo?
Claudio Baglioni è ancora on the road: ha calciato ogni pallone e vinto ogni campionato senza mai restare troppo a lungo fermo in panchina a rifiatare. Ha portato con sé le sue valige pesanti riempiendole ancora, e ancora, di abiti freschi, di parole nuove. Un sacco di parole, scelte con cura, mischiate, accartocciate, colorate, come un Bartezzaghi della musica leggera, che poi sempre leggera non è. E anche se qualcuno forse non se ne è mai accorto, Baglioni ha raccontato meglio di altri un Paese che in 50 anni è cambiato molto, e non sempre in meglio.
Lei è stato a lungo considerato, da chi non conosce bene il suo lavoro, un artista “disimpegnato”, attento ai sentimenti ma poco al sociale. Poi è bastata una frase sui migranti detta al Festival di Sanremo per ergerla a paladino della sinistra. In realtà lei ha affrontato spesso, e più di altri autori, temi importanti e seri nelle sue canzoni, dagli anziani abbandonati alla solitudine, dalle “ragazze dell’Est” ai nuovi migranti… Per non parlare del festival “O-scià” organizzato a Lampedusa proprio per sensibilizzare sull’emergenza immigrazione. Nel corso degli anni le è stata stretta questa idea che molti italiani si erano fatti di lei come «quello di “Questo piccolo grande amore”»?
«Capita a tutti di farsi un’idea sbagliata di una persona. Fa parte della vita. L’importante è non fermarsi alla prima impressione, capire come stanno davvero le cose e, in caso, essere disposti a rivedere il proprio giudizio. Io dico quello che penso. Opinioni, non verità. Le offro non come dogmi, ma come semplici spunti di riflessione. Chi vuole, se vuole, può accoglierli e ragionarci sopra. Dico solo che mi pare che l’umanità abbia smarrito la sua qualità migliore: l’essere umana. È rimasto il “sostantivo” umanità: quello che definisce l’insieme degli esseri umani. E si è perso l’“aggettivo” umanità: quello che indica il sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri. Secondo me è una perdita molto grave. E il presente che viviamo lo dimostra. Ma, ripeto: è solo un’opinione. La offro a lei e a chi ci legge. Ognuno faccia le proprie riflessioni. E dica… se questo è un uomo…».


L’Italia non sta attraversando un momento felice. Lei è ottimista o pessimista? Crede nella capacità di rinascita del nostro Paese o teme per una recrudescenza di odio e invidia sociale?
«Non è solo l’Italia ad attraversare questo momento. Basta guardare quello che succede nel mondo: Francia, Inghilterra, Stati Uniti… è l’Occidente che vive una vera e propria crisi di identità. E, soprattutto, di senso. Sembra aver dimenticato i valori che lo hanno reso grande. Valori dei quali si riempie la bocca a ogni occasione ma che quasi mai mette in pratica. L’odio è come il fuoco: facilissimo da accendere, difficilissimo da spegnere. E, come il fuoco, lascia solo cenere e devastazione. Sarebbe meglio se non lo dimenticassimo».

Dopo il Festival di Sanremo, sono cambiati i suoi rapporti all’interno del mondo della musica, con i suoi colleghi? E, se sì, come? Si è creato dei nemici oppure si è fatto amare anche da chi non la conosceva bene?
«Il “Festival di Sanremo” è molto più di quello che sembra. Non solo per la lunga e nobile storia, per la “funzione sociale” e di “costume”, per il “peso” televisivo e musicale. Non è, semplicemente, uno spettacolo di intrattenimento: è un’impresa. Nel senso buono del termine, ovviamente. Impresa “quotata” su due grandi mercati – musica e tv – con un “Pil” e un “indotto” estremamente significativi. Sia in termini di immagine che in termini economici. Perché le dico tutto questo? Per cercare di dare l’idea di cosa significhi essere chiamati alla responsabilità di entrare nel “board” di un’impresa del genere. È uno “spettacolo” ma non è un gioco. Anzi: è una cosa estremamente seria. E va seguita con grande serietà, anche perché da lei possono dipendere le sorti di molti professionisti. Io ci ho messo serietà, esperienza e professionalità. Non so dire se ho più amici o nemici di quanti ne avessi prima. Una cosa, però, è certa: posso dire di aver dato tutto quello che avevo da dare e di avere la coscienza a posto. “Si può dare di più”?, come diceva un vecchio successo sanremese. Certamente. Come sempre. Cosa posso dire? Se ne avrò l’occasione, ci proverò. Come sempre».
50 anni: non sono in molti a celebrare un matrimonio di successo con la musica così lungo e proficuo: qual è stata la formula che glielo ha permesso?
«Non lo so. Ma non credo che ci sia una formula. Sarebbe troppo facile. Tutti l’adotterebbero e tutti avrebbero successo. Quello che ho fatto, è stato cercare di rimanere me stesso. E, per farlo, non ho mai smesso di cambiare. Cambiare senza fingere, senza barare, senza bluffare, però. In questo mestiere, la falsità, prima o poi, si paga. L’unica moneta che non va mai fuori corso è l’autenticità. È lei l’unico vero “elisir di lunga vita”. Dico spesso che, al contrario delle fake news che fanno il giro del mondo, un fake artist non riuscirebbe nemmeno a fare il giro del proprio isolato. Se il tempo – l’unico giudice che non sbaglia mai una sentenza – non mi ha ancora mostrato il “pollice verso”, avrà le sue ragioni. Mi fido di lui. E faccio di tutto per fare in modo che lui continui a fidarsi di me. E anche la gente che, da così tanto tempo, mi dimostra stima, fiducia e affetto».
Essere sempre sulla cresta dell’onda è faticoso: c’è mai stato un momento in cui avrebbe avuto voglia di mandare tutto a quel paese e ritirarsi a vita privata? E che cosa le ha fatto cambiare idea?
«La vita è fatica. Soprattutto, quando le cose non girano per il verso giusto. Io ho avuto e ho l’immenso privilegio di fare un mestiere straordinario, con un successo che non avrei mai immaginato, sia per intensità che per durata: non posso certo lamentarmi. Sarebbe un insulto per tutte quelle persone – la stragrande maggioranza – che faticano molto più di me con esiti molto meno fortunati. Però è vero: a volte la tensione, la stanchezza, il contrasto tra “le cose come dovrebbero essere” e “le cose come sono”, ti fanno venire la voglia di mollare tutto. Ma è come la fiamma di un cerino: si accende immediatamente, e altrettanto immediatamente si spegne. Poi vedo il pianoforte o la chitarra e ritrovo istantaneamente le ragioni che mi hanno fatto amare la musica e questo mestiere. Allora mi siedo, comincio a suonare, le nubi si dissolvono e tutto torna sereno».


C’è un disco, un brano nella sua amplissima discografia che secondo lei non ha avuto il successo meritato? E quale?
«Ci sono alcune canzoni – poche, in verità – non album, che hanno avuto meno fortuna di altre. Forse perché non così immediate o forse perché arrivate nel momento sbagliato. E sono canzoni per le quali nutro un affetto particolare. Un po’ come capita con quei figli che hanno meno talenti o meno fortuna di altri. Chissà? Forse un giorno le raccoglierò tutte in un album, per dare loro una seconda opportunità. Magari la prima volta sono state un po’ troppo timide. Forse col tempo sono maturate. O forse siamo maturati noi e siamo finalmente pronti a riascoltarle».
Con “Al centro” propone 50 anni di carriera in ordine cronologico: un azzardo che pochi avrebbero tentato dal vivo, eppure il pubblico ha risposto bene. Com’è per lei cantare questa scaletta che racconta una crescita artistica ma anche umana?
«Un azzardo, è vero. Ma inevitabile. Quando ho iniziato a immaginare “Al centro”, mi sono subito reso conto che l’unico modo di raccontare questi cinquant’anni di e con la musica era quello di partire dall’inizio e arrivare al presente, un passo dopo l’altro. Le mie canzoni e io siamo cresciuti insieme, cambiandoci reciprocamente. Sono cambiati i temi, i testi, le melodie, la struttura armonica dei pezzi, le sonorità, i musicisti: una crescita e un’evoluzione continua. E il modo migliore per raccontare tutto questo era quello di seguirne lo sviluppo. Del resto, “Strada facendo”, “E tu come stai?”, “La vita è adesso”, “Le ragazze dell’Est” o “Mille giorni di te e di me” non sarebbero mai state le stesse senza le canzoni che le hanno precedute. E nessuna di loro e delle altre sarebbe mai esistita senza “Questo piccolo grande amore”. La strada della vita non è la somma, è la fusione dei nostri passi. I miei passi sono le canzoni. Senza di loro, non sarei qui, e certo non sarei la persona che sono. Ritrovarle in questa antologia che parte dal 1969 e arriva fino a oggi, non significa solo ricordare ma anche rivivere e, dunque, far rivivere noi stessi e le emozioni, i desideri e i sogni che abbiamo condiviso e che hanno reso questa strada unica, straordinaria e indimenticabile».

“Al centro” è il tour che, dal 16 ottobre 2018, ha visto il ritorno al live di Claudio Baglioni. Grazie al palco al centro, il pubblico - disposto a 360 gradi - può ripercorrere insieme all’artista mezzo secolo di grande musica, attraverso una scaletta con tutti i più grandi successi, per la prima volta in ordine cronologico. La seconda parte del tour è partita a marzo e farà tappa il 18 aprile alle 21 all’Adriatic Arena (ora Vitrifrigo) di Pesaro. Biglietti: su Ticketone.it oppure Pulp Concerti 329 0058054.

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