In sala stampa con Gianni Clerici, il maestro che scriveva il tennis che non si vedeva

Gianni Clerici per me è stato prima un profeta, leggendo 500 Anni di Tennis, poi un maestro, quando volevo diventare un giornalista con tutte le mie (scarse) forze, poi un modello da imitare, senza mai riuscirci. Quando finalmente ho potuto dividere una sala stampa con lui, è successo diverse volte in giro per il mondo, ho cercato di rubare i segreti di tanta genialità, non tanto leggendo i suoi articoli, ma osservando i suoi gesti ordinari, cosa diceva ai colleghi, le cene, i pranzi, le discussioni.

Dall’ordinario cercavi di capire lo straordinario, senza mai riuscirci, perché scrivere un articolo da circoletto rosso, come diceva il suo amico Rino Tommasi, per Gianni Clerici era come sgorga l’acqua da una sorgente, bella, fresca, incontaminata, ma soprattutto esce libera e guizzante, non forza blocchi, non fa fatica. Scriveva come certi giocatori giocano a tennis, meravigliosamente semplice e pur così tutto affascinante. Ho sempre pensato che Gianni Clerici, che ci ha lasciato nelle ultime ore, era il giornalista perfetto per un caposervizio, scriveva quello che non si vedeva.

In un’epoca dove tutto è social ancor prima che sia venuto al mondo, Gianni ti raccontava la reale intimità del fatto tecnico, una partita non era mai una somma di quindici, ma di storie che si accavallavano. Più che articoli i suoi pezzi erano capitoli di un romanzo, alcune sue frasi erano più realistiche di un quadro di Caravaggio: una volta Panatta battè a Roma un neozelandese un po’ ruvido, dalla mano un po’ scorbutica e Gianni Clerici disse di lui che alzava le volèe da terra “come fossero ciuffi di gramigna”. Lui aveva un carattere molto diverso da Giampiero Galeazzi, ricordo una volta a Milano, finale di Coppa Davis, che “Bisteccone” voleva dire a tutti i costi una barzelletta in sala stampa, Clerici prima si arrabbiò un po’, poi invitò tutti ad ascoltarla. Così diversi, ma in fondo così uguali nell’essere, ognuno a modo suo, grandi protagonisti. E che fortuna averli frequentati.

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