Imola, storia di Mario Fantin che filmò l'impresa del K2

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Non scalò “solo” il K2 con la prima spedizione italiana nel 1954. Lo fece con una cinepresa 16 millimetri, a carica manuale, in spalla. In quelle condizioni proibitive, in verticale, appeso in cordata, esposto al vento furioso che batte sulle tende col «fragore di 40 treni in corsa», con la neve che acceca e si pianta come spilli negli occhi di chi la immortala mentre avvolge uomini e montagna, prima di lui nessuno aveva mai girato. Mario Fantin filmò l’impresa degli uomini guidati da Ardito Desio per mostrarla al mondo.

L’avventura di una vita

Dalle immagini da lui realizzate nacque il film “Italia K2”, che all’epoca sbancò al botteghino. Per partecipare a quella spedizione impegnò tutte le sue sostanze, lui ragioniere bolognese che dopo anni in guerra per riprendersi un po’ di salute aveva iniziato a camminare la montagna. Il film però lo firmò un altro, Marcello Baldi, nei titoli di testa Mario Fantin era “solo” il cineoperatore. Fu un brutto colpo, ma il suo lavoro non passò inosservato e iniziò ad essere chiamato per documentare molte altre spedizioni extraeuropee. Girò il mondo e documentò l’avventura, i popoli, le terre, i venti, le montagne soprattutto, le distese di ghiaccio e le foreste, i deserti, dalla Groenlandia al Kilimangiaro, dall’Amazzonia alle Ande, al Messico e oltre. In quello sul K2 e in decine di altri viaggi che seguirono, non si preoccupò mai dell’utilità, della fama, del denaro: «Lo abbiamo fatto solo per noi, per la gioia inesprimibile che ogni alpinista conosce in montagna». «Avemmo tutto e niente». Nel luglio del 1980, all’età di 59 anni, Fantin decise di andarsene con un colpo di pistola, usò quella che aveva avuto nei suoi 1800 giorni da soldato in guerra, sul fronte slavo dopo l’armistizio del 1943. Lo fece nella stanza di casa dove viveva chiuso da anni, trasformata nell’archivio del Centro italiano studio documentazione alpinismo extraeuropeo che lui stesso aveva fondato a fine anni Sessanta, nel febbrile intento di creare un archivio di tutto quell’immenso patrimonio fotografico, filmico, etnografico, antropologico, che in vent’anni di viaggi ai confini del mondo aveva visto, vissuto e immortalato.

Il film e la mostra

Quella morte incise sull’oblio che cadde su Mario Fantin e sul suo patrimonio inestimabile di documenti, foto, film libri, scritti, in parte smembrato e donato ai musei, in parte chiuso nei cassetti di famiglia, comunque invisibile. Lo conoscevano gli alpinisti, lo conosceva il Cai, lo conosceva il giornalista imolese Giorgio Bettini, presidente anche della sezione locale del Cai che al Museo della montagna di Torino organizzò una mostra in cui riemergeva il peso di questa figura incredibile, e nella quale incappò il regista, imolese anch’egli, Mauro Bartoli. Iniziò lì un nuovo viaggio e un nuovo racconto, durato 10 anni, che è la sostanza del suo ultimo film documentario “Il mondo in camera” e della mostra collegata “Senza posa” che oggi verranno rispettivamente proiettato (alle 18 al cinema Centrale, e domani e lunedì al cinema Cappuccini alle 21) e inaugurata (alle 16.30 al centro mostre Gianni Isola fino al 13 novembre) a Imola. «Stavo già lavorando al film quando trovai, fra le cose conservate ancora dalla nipote Valeria, il suo taccuino – racconta Bartoli –. Era una miniera di pensieri e documenti». Da lì, oltre che da altri suoi libri, sono state prese le parole per la voce narrante del film, ma soprattutto sul taccuino è costruita la mostra allestita insieme al longianese Claudio Ballestracci, che dopo Imola approderà a Cesena, per poi continuare a viaggiare l’Italia. Nel film, Bartoli intervista i famigliari di Fantin, le guide alpine che lo accompagnarono su molte vette, che lo conobbero, altri cineasti della montagna che si chiedono ancora come fece a girare un film in quegli anni, in quelle condizioni, con quella precisione di immagine assoluta. Ma soprattutto Bartoli ridà la voce perduta a Fantin, attraverso i suoi pensieri scritti e le sue formidabili immagini, svela la sua coscienza di narratore con l’ansia di raccogliere, riuscire a esprimere e non disperdere le sue storie. «A volte mi chiedo cosa resterà di noi, di ciò che abbiamo vissuto, visto, sentito e provato – scrive il cineasta alpinista –. Quante cose sono andate perdute perché nessuno si è dedicato a raccontarle, a conservarle. Il solo ricordo non basta per trasmettere ciò che si vive quando ci si spinge oltre il confine del mondo civilizzato...». Questo film oggi recupera poeticamente la storia di un uomo e un patrimonio, riconsegnandolo a chi lo aveva dimenticato, facendolo scoprire a chi non lo conosceva.

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