Imola, crac Mercatone Uno: no all'assoluzione delle figlie di Cenni

Archivio

La Corte di Cassazione annulla l’assoluzione di Elisabetta Cenni, Micaela Cenni e Susanna Cenni per il reato di bancarotta fraudolenta nell’ambito del crac del Gruppo Mercatone Uno, rimandando gli atti alla Corte d’Appello di Bologna.

La Suprema corte ha accolto i ricorsi presentati dal Pubblico ministero Giulio Romano e dalle parti civili, secondo cui la restituzione delle somme sottratte e la reintegrazione del patrimonio (la cosiddetta bancarotta riparata) da parte delle tre figlie del patron Cenni e di un co-imputato sarebbe dovuta avvenire prima della dichiarazione del fallimento.

L’accusa

Secondo l’accusa Elisabetta Cenni, Micaela Cenni, Susanna Cenni e tre co-imputati avrebbero «posto in essere più condotte distrattive in danno delle società del Gruppo Mercatone Uno, interessanti il patrimonio della holding e delle sub holding – ripercorre la sentenza della Corte di Cassazione –. In particolare, secondo la prospettazione accusatoria, tali condotte, avviate in occasione di un processo di riorganizzazione societaria, avevano conseguito l’effetto di trasferire in favore degli imputati e di società da loro controllate gran parte del patrimonio immobiliare del gruppo».

Dopo aver accantonato un “tesoretto” di 140 milioni e 169.817 euro, distribuibili per cassa ai soci, «l’attribuzione dei beni immobili era poi stata realizzata attraverso la creazione di un fondo immobiliare chiuso, nel quale erano stati conferiti gran parte degli immobili, destinati poi ad essere dati in locazione al gruppo stesso – si legge ancora –, e la vendita delle quote del fondo a società di diritto lussemburghese riferibili ai soci stessi, dalla quale sorgevano obbligazioni di pagamento estinte attraverso l’utilizzazione delle riserve sopra ricordate e oggetto di distribuzione».

Il pronunciamento

Pur valutando che per due co-imputati i ricorsi non sono ammissibili, «va considerato che l’istituto della cd. bancarotta riparata presuppone la dimostrazione dell'avvenuta reintegrazione, nella sua effettività ed integralità, del patrimonio dell'impresa prima della dichiarazione dello stato di insolvenza – ribadisce la Suprema corte –, con conseguente annullamento del pregiudizio per i creditori».

E «la sentenza impugnata non consente di comprendere quale sarebbe la portata riparatoria dell’operazione – aggiunge –, dal momento che non si confronta né con il tema della fonte dei crediti utilizzati per la compensazione né con il fatto che la sottoscrizione degli strumenti dimostra che l’apporto di ricchezza è correlato a prestazioni sinallagmatiche (corrispettive, ndr) del cui contenuto la sentenza si disinteressa».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui