Il vittimismo: difficoltà, disagi ma anche sofferenza

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«Non posso farcela; capita tutto a me; non piaccio a nessuno; lo fanno di proposito per farmi star male». Sono tante le espressioni alle quali corrispondono pensieri e comportamenti di quelle persone che tendono a considerarsi “vittime” di un destino infausto e che azzerano le loro possibilità di avere un ruolo attivo e propositivo nella propria vita. Si tratta di persone che percepiscono in maniera costante un senso di sfiducia in sé stessi e negli altri mediante un percorso mentale che porta all’irrigidirsi di meccanismi psicologici, talvolta, difficili da scardinare. Per saperne di più, ne parliamo con Francesca Lacchini, psicologa e psicoterapeuta attiva al Centro Liberamente di Ravenna.

Dottoressa, che cosa ci dice di quelle persone che sembrano essere vittime di sé stesse?

«Il vittimismo, in ambito psicologico, non è considerato un sintomo, né tantomeno esiste una diagnosi, ma ciò non significa che non provochi sofferenza. Si tratta di uno stile cognitivo, comportamentale e relazionale che mette in atto la persona, in maniera solitamente involontaria, e che gli crea una serie di difficoltà e disagi. Il soggetto tende a colpevolizzare, qualche volta ad affliggere l’altro che considera la causa della sua sofferenza; allo stesso tempo non crede nelle proprie possibilità e che qualcosa di bello possa accadergli. È un meccanismo che crea un circolo vizioso di negatività che la persona trasmette, ma che al tempo stesso, riceve».

Che cosa passa nella testa di una persona che ha questo atteggiamento?

«Viene a mancare il concetto di causa-effetto; le loro azioni e i loro comportamenti non sembrano produrre nessun cambiamento. Tutto e tutti sono, in qualche modo, concentrati e proiettati contro di loro. Qualche volta queste convinzioni raggiungono punte paranoiche. La percezione è quella di vivere in un mondo ostile, nel quale non hanno strumenti per intervenire per placare questa infinita ondata di sfortuna e catastrofi che sembrano abissarsi su di loro. Purtroppo, non riescono a stabilire dove e quando questa negatività ha avuto inizio e vivono come se, irrimediabilmente, passato, presente e futuro fossero senza speranza e possibilità di miglioramento. Si può ipotizzare che queste persone abbiano un “locus of control esterno” rigidamente strutturato, tendono cioè ad attribuire esternamente le cause di ciò che gli accade, quasi sempre di spiacevole. Inoltre, potrebbero avere uno stile cognitivo prevalentemente analitico, focalizzato sul particolare, che può rendere difficile compiere una lettura globale della realtà».

Da dove ha origine questo tipo di atteggiamento?

«Questo stile potrebbe nascere all’interno delle relazioni significative, cioè a contatto con coloro che si sono presi cura della persona durante l’infanzia. Sono persone che, molto probabilmente, non hanno avuto la percezione di ricevere la disponibilità dell’altro, specie nei momenti di difficoltà; forse sono o hanno sentito di essere stati abbandonati; lasciati soli durante le diverse fasi della crescita e inoltre, possono essere stati oggetto di critiche e commenti negativi nei loro confronti. Sono persone che in genere associano a sé stessi un concetto di disvalore. Hanno quindi un grosso problema con la fiducia, sia in sé stessi che negli altri e mancano anche di autostima e di senso di autoefficacia»

Questi pensieri sono espliciti?

«Quasi mai, anzi il vittimismo assume la funzione di un meccanismo di difesa, che fa sì che si mantenga fuori di sé il male e la sofferenza, come se questi dipendessero sempre da una causa esterna. In un certo periodo della loro vita, ciò è stato utile per difendersi dal dolore, ma poi si è finiti con il non accettarlo mai, e in alcuni casi esso può venire rinforzato, fino a diventare un tratto della personalità. Sono persone che tendono a desponsabilizzarsi, a proiettare e a chiudersi, fino a trincerarsi dietro false convinzioni».

Questa attitudine, quali conseguenze ha sulle loro relazioni?

«Ciò porta ad attribuire agli altri la causa del proprio malessere; si tende ad accusare chi è intorno e quindi ad allontanarlo, a non fidarsi, ma contemporaneamente a ricercarne la presenza. Così facendo, molto spesso, confermano l’idea che hanno di sé stessi, degli altri e della vita in generale, cioè che tutto va male, che niente è migliorabile e possono anche spingere ad allontanare le persone più care».

Quando il vittimismo assume connotati patologici, come può intervenire la psicoterapia?

«Prima di tutto si deve tentare di costruire un’alleanza terapeutica con il paziente; ciò significa entrare in relazione e creare un clima di fiducia. La relazione deve essere inoltre caratterizzata da ascolto, accettazione, assenza di giudizio, in maniera tale che la persona, nel rispetto dei suoi tempi, riesca ad aprirsi, a esplorare, con l’aiuto del terapeuta, le parti più profonde di sé, fino a quel momento, per certi versi, inaccessibili. Solo dopo aver visto, compreso e accettato queste parti, si è pronti a costruire una visione di sé e del mondo più positiva».

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