Il senso dell'umano e del destino: tre voci poetiche a confronto

Cultura

La poesia come riflessione sul senso più alto dell’umano e del destino sarà oggetto del confronto tra le esperienze poetiche di tre illustri nomi della poesia contemporanea: Rosita Copioli, Gian Ruggero Manzoni, Francesca Serragnoli, per l’appuntamento conclusivo della rassegna “La serenata delle zanzare”.

“Elena, il deserto, la preghiera” è il titolo della serata che li vedrà in dialogo con Pasquale Di Palmo, stasera alle 21 all’Arena Cappuccini (in caso di maltempo al teatro Comunale).

Copioli, lei ha scritto del suo recente “Elena Nemesi” che «la bellezza va ricondotta dentro di noi a una rigenerazione, a un ricominciamento continuo». Cosa significa?

«Ognuno ha nella propria storia gli esempi da attraversare, su cui riflettere»», sottolinea la poetessa e scrittrice riminese. «L’armonia non è l’equilibrio degli psicologi, comunque è la difficile sintonia con quanto possiamo percepire tra sfere celesti e “daimon”, per fare arte, o poesia. Non ho alcuna pretesa di riuscirci, il dubbio è l’unica cosa che ho, come un terremoto continuo, interno. L’unica cosa che ti posso aggiungere sulla mia inquietudine, è che Giuseppe Conte, il poeta, naturalmente, con cui lavorai insieme ad altri amici promuovendo la manifestazione a tesi “La nascita delle Grazie” (Riccione, 1988), mi ha scritto così dopo averla letta: «ho appena finito di leggere “Elena Nemesi”, ha la forza galoppante di un dramma elisabettiano, la poesia ardua di una tragedia di Sofocle, e c’è tutta la tua poetica che prende forma e azione.È, nel suo contemperare realtà presente e mito, un organismo perfetto. Quando io scrivevo di mitomodernismo pensavo a opere come questa».

“Ultramodum” di Gian Ruggero Manzoni è un percorso nel deserto che diviene «metafora privata e collettiva del nichilismo attuale, in cui non è possibile non riconoscere il sigillo della precarietà che ci attanaglia».

«Il 2020 è stato un anno allucinante – dice l’autore lughese –: pandemia, isolamento sociale, rapporti sentimentali che sono saltati, circa un milione di italiani senza più lavoro, attività che hanno chiuso. Sì, il mio “Ultramodum” parla anche di questo, ma anche della vita, in senso generale, perché mai dobbiamo scordarci che la stessa è sempre attaccata a un filo sottilissimo. Questo mio poemetto in 55 stanze si rifà oltre che al sapere profusoci dall’Antico e Nuovo Testamento, anche alla scrittura in versi del poeta ebreo Edmond Jabès. Abbiamo vissuto e stiamo vivendo una fine, sebbene, tra i giovani letterati e artisti, tanti siano coloro che ancora si rifanno al XX secolo e a quei maestri, oppure a passati più antichi, spesso in accezione da epigoni. Mi sono sempre dedicato alla letteratura e all’arte perché mi piace essere in loro. Noi siamo qui di passaggio, niente più, quindi, al meglio possibile, necessita riempire detto tempo con ciò che ami fare, o mi sbaglio?».


Richiami anche a Dante e Michelangelo ne “La quasi notte” della poetessa bolognese Francesca Serragnoli tessono il filo, come in una sorta di preghiera laica, di un’incessante ricerca della «bellezza intravista nelle cose… Vita che invoca la vita».

«Vedere la realtà come salvata, significa vederla nell’ordine di un destino. È più che sufficiente. Il miracolo di Dante poi è un miracolo. Vedere l’inferno come salvato, cioè tutto come destino, è confortante. Basterebbe. La bellezza è il volto attraente del bene, l’amabilità del bene delle cose. La bellezza non coincide con l’ora museale estetica, ogni elemento ce l’ha. Il poeta non la crea, la ritrova nella creazione. È la sola comunione laica che gli è concessa. Non è scontato intravedere la bellezza nelle cose, è sempre una lotta scorgerla. Oggi viviamo nella logica dell’utile, nella meccanica dell’utile e trattiamo l’inutile come sfarzo o lusso o bazzecola. Solo un mistero attraente disturba la disperazione, mette un tarlo al nulla. Se è una promessa di bene, allora si può anche parlare di salvezza. Ma non è la poesia che ha questo compito. Per fortuna».

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