Il riminese Luigi Bonizzato tra i dimenticati di Caporetto

Cultura

RIMINI. I dimenticati di Caporetto viene presentato oggi alle 16.30 al museo di Rimini con Marta Ferrari della casa editrice Rossato e l’autore, Alberto Di Gilio, oltre al musicista e storico Carlo Perucchetti e all’attore Silvio Castiglioni che leggerà alcuni brani.
Di Gilio, avvocato nato a Padova e che vive a Vigonza, racconta la prigionia dei soldati italiani nella Grande guerra. Dei circa 600mila uomini fatti prigionieri tra il 1915 e il 1918, quasi la metà fu catturata durante la battaglia di Caporetto per poi essere trascinata nei diversi campi di detenzione disseminati in Europa. Grazie al diario di prigionia inedito di Luigi Bonizzato – nato a Tivoli nel 1898 e vissuto a Rimini con la famiglia dal 1946 al 1962 (anno della sua scomparsa) – si cerca di dare una chiave di lettura diversa del “dopo Caporetto”, oltre che per raccontare una pagina della nostra storia finita nel dimenticatoio. Ne abbiamo parlato con Marino Bonizzato, architetto riminese figlio di Luigi.


Bonizzato, quale significato ha per lei e la sua famiglia la battaglia di Caporetto?
«Il libro di Di Gilio credo abbia la capacità di ridurre fortemente la distanza tra noi e quell’evento storico e di far capire che la “grassa” e impolitica società di oggi può assumere da quella tragedia molti salutari insegnamenti, soprattutto per il recupero di valori come la libertà, la bellezza, l’armonia, la misura, e per il rilancio di una sincera umanità».
All'interno de “I dimenticati di Caporetto” troviamo il diario di suo padre. Che cosa racchiudono le pagine di Luigi Bonizzato?
«Sembra che mio padre abbia vissuto quell’esperienza come dietro a una macchina da presa. Le pagine del suo diario appaiono come sceneggiature di un dramma che scorre davanti a occhi attenti, a un cuore che si emoziona e a una mente che ragiona. Mettendo assieme le diverse sequenze, potrebbe venirne fuori un film eccezionale».


Suo padre è stato prigioniero di guerra, ma di quell’esperienza cosa le raccontò?
«Ricordo solo qualche accenno al cibo che ingurgitava per sopravvivere: un cucchiaio al giorno di grasso di foca e, come piatto supremo, bucce di patata rubate dalla pattumiera delle cucine per i soldati tedeschi».
In che modo si riesce a superare un trauma come quello di essere prigioniero di guerra?
«Dopo la guerra mio padre non credo abbia avuto molto tempo per pensare alla sua disavventura. D’altra parte ne era uscito vivo. Circondato dall’affetto dei genitori, riprese gli studi di Ingegneria civile e nel 1922, ventiquattrenne, si laureò. Subito dopo aprì uno studio professionale che lo impegnò sino alla crisi del ’29».
Ritiene che suo padre sia “un dimenticato”?
«No, mio padre, al di là dell’esperienza di prigionia, più che un “dimenticato” è un “ricordato” grazie a una vita poi trascorsa da protagonista nei campi del lavoro, della politica, dell’arte, della cultura e dello sport, godendo dell’amore della famiglia e dell’abbraccio di amici e collaboratori».
Rimini per suo padre – e per lei- è una città che molto cara, nonostante lui fosse un veronese nato a Tivoli. Cosa ha rappresentato per Luigi Bonizzato questa città?
«Rimini ha un genio forte che può esaltare chiunque l’ami senza troppi calcoli. Così i riminesi hanno consentito a mio padre di esprimere appieno la sua umanità, creatività e senso del sociale. Tanto che quando gli fu proposto di assumere la prestigiosa direzione della Timo (Telefoni Italia medio orientale) per la Lombardia, abbandonando quella della Romagna, rifiutò, eleggendo quindi Rimini, oltre a Verona, a sua città più cara».


E per lei?
«Io, Giuliano e Franca abbiamo cercato, nei limiti del possibile, di tenere alto il nome che nostro padre si era conquistato nella città».
Che uomo era suo padre? Cos’ha significato essere suo figlio?
«Un uomo fuori dagli schemi. Nel libro, l’autore mi ha lasciato spazio per farne un ritratto. Mi son messo così sulle tracce di una vita che conoscevo relativamente e mi ha fatto comprendere alcune importanti scelte del mio genitore. La figura che ne ho tratto conferma decisamente quella, già intuita e rispettata, di esempio da seguire e trasmettere senza esitazioni».

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