Il ricordo del santarcangiolese Pino Boschetti

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È la sua Santarcangelo quella che in tanti conoscono: colorata, luminosa, attraversata da suore “cappellone”, da donne dalle dolci forme, giocatori di bocce dal viso rubizzo, famiglie in sidecar, istantanee strabordanti di dettagli, persino di cicche tra l’acciottolato. Come l’ha dipinta lui nessuno lo aveva mai fatto e mai lo farà. Giuseppe (Pino) Boschetti (1944-2022) scomparso sabato scorso, è il suo pittore, quello che della città ne ha colto e restituito la visione con ogni monumento, palazzo, via, angolo, pietra, colui che ha saputo leggerne lo spirito, la vivacità, l’indole, l’artista che della sua gente ha fermato atteggiamenti, movenze e di cui ha trasmesso l’anima, sentimenti, colori, pensieri.

Basti citare alcune grandi tele, notissime, come “Teatro in piazza” del 1978, “Fiera di San Martino” del 1979, “Sera d’estate” del 1982. «Amo questa mia città – aveva detto – e le devo tutto: i miei quadri sono improntati alle conoscenze che ho di lei. Dipingo le cose che mi sono familiari. La mia fantasia è nata qui e fin da piccolo si è nutrita dell’aria di Santarcangelo. Quando voglio riappropriarmi di lei faccio un giro, la mattina presto, da solo, nei luoghi che mi hanno stimolato».

Nato e vissuto a Santarcangelo, nel cuore cittadino, sulla centralissima Piazza Balacchi, ne ha respirato storia e memoria. È lì, all’ultimo piano del Palazzo Nadiani, che la sua mano felice e prolifica ha dato vita a capolavori indimenticabili, a una serie infinita di quadri a olio, in gran parte di grandi dimensioni in cui ha immortalato la sua città e la sua gente. Certo trasfigurata dal suo immaginario sguardo che navigava tra ieri e oggi, tra mondo contadino e mondo moderno, tra passato e presente.

Ogni giorno, per anni, è sceso in piazza Ganganelli, a piedi, per raggiungere il Municipio dove ha sempre lavorato fino alla pensione e dove rappresentava un valido, prezioso, generoso, gentile, riferimento per i colleghi e per i cittadini. Poi, dopo il lavoro e gli impegni dell’amata famiglia, la moglie Dolores, i figli Marcello e Valeria, la nipote, ogni ora libera la dedicava al disegno e alla pittura. Rifugio sicuro e magico per lui, spazio dell’incanto, della meraviglia, dello stupore per ogni amico e visitatore che lo andava a trovare. Non a caso l’ultima sua mostra, del 2006, si intitolava “La pittura dell’incanto”. E lui ne era felice, accoglieva con un’affabilità e una disponibilità commovente. Del resto non si poteva che raggiungerlo a casa per poter vedere i suoi lavori, perché lui, non li lasciava mai, non se ne privava mai, fatta eccezione per pochissime mostre accettate sempre con titubanza.

E questa sua riluttanza non è tutto, perché Boschetti non ha mai voluto vendere neppure un quadro. E ciò anche quando aveva di fronte i più insistenti compratori con offerte munifiche. Se ne scusava, ne era dispiaciuto ma non poteva farci niente: «Io sono così, sono molto geloso dei miei lavori e provo piacere a tenermeli accanto. Ho sempre detto di no a compratori privati e galleristi, e non solo alle richieste di acquisto ma anche per esporre».

Aveva rinunciato a tante mostre importanti e persino a una personale a New York e smesso anche di accogliere gli inviti per quelle esposizioni nazionali che gli erano valse premi importanti, come la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al Premio Nazionale delle Arti Naives di Luzzara di cui è stato insignito più volte. Sì, perché lui era entrato a pieno titolo far parte della grande famiglia dei pittori naif nel 1980 in occasione della XIV edizione del rinomatissimo Premio di Luzzara. In quell’occasione gli venne dedicata un’intera “parete” espositiva e un suo dipinto del 1977 entrò a far parte del museo oggi intitolato a Cesare Zavattini. Era nato pittore e quel suo talento aveva iniziato presto a palesarsi. «Ho sempre disegnato e dipinto. All’asilo erano le maestre a chiedermelo e peccato che quei lavori non li ho più ricevuti indietro». Un lavoro certosino il suo, che iniziava col disegno: «Prima creo tanti bozzetti poi disegno la tela, e quando vado a dipingere devo già essere sicuro di come deve venire il quadro, senza dover più pensare al disegno, c’è solo la concentrazione sulla scelta dei colori e sull’armonia degli stessi rispetto all’intera tela».

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