Il partito del lavoro perduto

Editoriali

Ancora una volta l’Emilia Romagna si prende la scena della politica nazionale, o almeno una parte di essa. Se il centrodestra andato al governo è targato Garbatella, il quartiere popolare della capitale dove è nata Giorgia Meloni (con il suo inconfondibile accento), il Pd che verrà ha anima e corpo bolognesi. Uno dei candidati forti alla segreteria, come si diceva in questa colonna anche domenica scorsa, è il presidente della Regione Stefano Bonaccini, origini modenesi ma trapiantato sotto le due torri. Giorni fa un altro pezzo da 90 ha calato un carico: Matteo Lepore, sindaco di Bologna, ha proposto di aggiungere una parola chiave al nome del partito: lavoro. Un richiamo all’articolo 1 della Costituzione italiana che ricorda le priorità a un Paese distratto. Un’integrazione che suona però come un’ammissione di colpa: se la principale forza della sinistra ha bisogno di ricordare, soprattutto a se stessa, da dove viene e chi dovrebbe difendere, significa che negli anni ha perso la rotta. Finendo, come ha detto in modo tranciante l’ingegner Carlo De Benedetti in un’intervista al Corriere della Sera, per diventare un partito di baroni. Non è un caso se Movimento 5 Stelle e Lega hanno fatto man bassa di voti nelle fabbriche. Ben venga dunque la svolta, accolta con entusiasmo dal sindaco di Ravenna Michele De Pascale. Molti colleghi lo considerano un faro, sicuri che prima o poi prenderà il treno per Roma. Con tutte le difficoltà del caso, visto l’isolamento ferroviario di cui soffre la sua città. Ma questa è un’altra partita.

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