Il papà di Azzurra: "Siamo stati pionieri e oggi siamo orgogliosi"

Non tutti lo sanno ma Azzurra, la prima barca italiana a lanciare la sfida all’America’s Cup, è stata varata a Pesaro. Era il 19 luglio 1982. A costruirla fu il cantiere Officine Meccaniche, diretto da Marco Cobau che oggi ha 72 anni e vive ancora sulle colline di Pesaro da dove gode di una bellissima vista sulla città e sull’Adriatico. Regatante (fra l’altro campione italiano classe Flying Dutchman), ufficiale di Marina, direttore di cantiere, costruttore, progettista, consulente nautico, l’ingegnere è nato a Padova da genitori profughi di Veglia (Krk in croato), un’isola del Quarnaro, dove soffia forte la Bora. E proprio il soffio di quel vento sembra aver ispirato la sua professione di ingegnere navale che si è sviluppata in quasi tutto il mondo, dagli Usa alle Isole Figi, dall’Australia al Marocco, dalla Francia alla Turchia. Assieme al progettista Andrea Vallicelli, allo skipper Cino Ricci, al timoniere Mauro Pelaschier e a Gianni Agnelli e all’Aga Khan che trovarono le risorse finanziarie, è sicuramente uno dei principali protagonisti di quell’avventura dal sapore pionieristico

Ingegnere, come mai fu scelto il vostro cantiere?

«All’epoca a costruire barche in lega leggera in Italia eravamo pochissimi, forse eravamo gli unici. Il nostro cantiere era in competizione per l’assegnazione dell’appalto con un cantiere ligure molto titolato e che poteva fare affidamento sulla conoscenza e la partecipazione di un costruttore americano che aveva già realizzato 4 o 5 scafi della classe dodici metri di Coppa America. Accettammo delle condizioni contrattuali legate alla tempistica piuttosto “capestrose” e siamo stati bravi a rispettare i tempi della lavorazione e della consegna. Per noi era la 51ª barca. Di barche in lega leggera ne avevamo fatte tante».

Che genere di barche realizzavate?

«Alcune barche che hanno fatto parte della squadra italiana dell’Admiral’s Cup e altre in gara in diverse regate: Mandrake, Enteara, Vanina, Il Moro di Venezia II, Chica Boba II...»

A Pesaro quando fu varata Azzurra arrivarono ministri e pezzi grossi.

«Sì, c’era il pienone. Organizzarono persino un grande ricevimento ma la persona che organizzò l’evento non invitò gli operai. Presi subito contatto con un ristorante del porto e anziché andare a quella festa al palazzo Ducale, organizzai la cena insieme a loro. Poi, verso le 11.30 di sera, da Cino Ricci all’Aga Khan, compreso quel che era successo, arrivarono al ristorante per salutare gli operai e congratularsi con loro. La dimenticanza fu una vera gaffe, uscì anche sui giornali... E pensare che erano stati molto attenti a tutto, persino alla bottiglia da rompere durante il varo...».

Cioè?

«La moglie dell’Aga Khan, come madrina del varo, doveva lanciare la bottiglia e, siccome tra la gente di mare la scaramanzia non manca, avevano fatto realizzare tre bottiglie (per sicurezza...) a Murano, sottili come lampadine, trasportate fino a Pesaro dentro la “bambagia”. Non poteva non rompersi...»

Senza Azzurra sarebbero potute arrivare le imprese del Moro di Venezia o di Luna Rossa in America’s Cup?

«In ogni iniziativa ci vogliono degli apripista. Senza riempirci di gloria, diciamo che siamo stati i pionieri. Poi tutto ha avuto un seguito, un’evoluzione, ed è giusto così. Giusta anche la scelta delle imbarcazioni e della tecnologia applicata».

Non è fra quelli che dicono che erano meglio le regate di una volta?

«Una volta in America’s Cup c’erano regate che duravano 8 ore. Non puoi tenere il pubblico attaccato 8 ore davanti alla tv. Oggi è stata fatta una “manovra” molto intelligente, portando l’evento a misura dello spettatore. I media hanno portato in questo caso il grande, grandissimo pubblico a partecipare a un evento che altrimenti sarebbe stato di nicchia. Così gente che nemmeno sapeva esistesse la Coppa America si alza alle 3 di notte e guarda le regate».

Fa così anche lei?

«No. Io mi alzo alla mattina a mi collego a Youtube».

Cosa prova nel vedere una barca italiana volare a 50 nodi e arrivare alla finale di America’s Cup?

«Questi sono dei bellissimi aliscafi a vela e con tutti i meriti di chi ha realizzato questa tecnologia, ci tengo a dire che il concetto di scafo volante è italiano e nasce nel 1906, con l’idroplano degli ingegneri Crocco e Ricaldoni. Ovviamente poi gli altri ci hanno rubato tutto e noi siamo rimasti col cerino in mano. In questo caso però c’è la soddisfazione che un prodotto italiano con tecnologia italiana e capitali italiani sia al top in una competizione di livello mondiale in cui conta non solo la pubblicità ma anche l’aspetto sportivo».

Fra i suoi tanti lavori, anche quello legato al restauro della Calypso di Jacque Cousteau.

«Una storia bella finita male. La motonave era un dragamine costruito nell’Oregon nel 1942 e prestata dalla marina americana alla Royal Navy. Dopo la guerra Calypso fu adibita a trasporto passeggeri tra l’isola di Malta e di Gozo sotto bandiera maltese. Cousteau la prese nel 1950 e fino al 1997 è stata una nave ricerca. Quell’anno, purtroppo, nel porto di Singapore fu danneggiata da un relitto. Morto Cousteau, è finita in mezzo alla battaglia degli eredi. Nel 2016, grazie a uno sponsor egiziano, si è dato il via alla ricostruzione e mi è stato affidato l’incarico di dirigere i lavori che sono stati assegnati a un cantiere in Turchia. Nel settembre del 2017 però un incendio dalle dinamiche poco chiare l’ha completamente distrutta. Una brutta fine per una nave bellissima, testimone di una storia altrettanto bella».

Quale lavoro ricorda con più piacere?

«Un giorno mi chiamarono perché uno yacht di 16 metri era finito sulla barriera corallina alle Isole Figi. Erano intervenuti esperti americani, australiani e neozelandesi ma non erano riusciti a recuperare la barca. Quando arrivammo, ci guardarono con l’aria di dire: ma dove credete di andare, voi italiani... il solito stereotipo “pizza e spaghetti”... Ebbene, in qualche modo, stendemmo la barca sull’altro fianco, chiudemmo l’enorme falla e la rimettemmo a galla. Quando videro cosa avevamo fatto cominciarono a guardarci in modo diverso, con più rispetto. Provai una grossa soddisfazione per aver dimostrato di cosa siamo capaci noi italiani».

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