Il medico riminese: "Dalla Rianimazione Covid ai villaggi del Madagascar, la mia avventura impagabile"

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«Mi trovo in un posto strano e molto affascinante, nel Sud Ovest del Madagascar, un’area semidesertica ma attaccata al mare, dove c’è un piccolo ospedale, che serve tutti i villaggi in un raggio di costa di 200 chilometri». Avevamo lasciato Giuseppe Nardi con le chiavi in mano del reparto di Terapia intensiva dell’ospedale Infermi di Rimini, impegnato a combattere il Covid, che tra contagi esponenziali, ricoveri e decessi, sembrava un morbo inarrestabile. Dopo aver raggiunto la pensione, all’età di 68 anni, l’ex primario è ancora sul campo di battaglia per combattere una nuova guerra. Quella per l’approvvigionamento di medicine, di garze e siringhe in un luogo in cui «non esiste energia elettrica, in cui le persone si spostano con gli zebù, (animali simili ai buoi, ndr), che non vanno più forte di 10 chilometri all’ora, in cui la maggior parte della gente non ha documenti e non sa quanti anni ha». «Si combatte per la sopravvivenza» sintetizza tranchant. Però, per il medico che già in gioventù era stato in Africa, nella foresta del Congo e in Zimbabwe, quella del Madagascar lontanissimo dai resort lussuosi e dai villaggi turistici, «è un’esperienza che dà entusiasmo, si respira la gratitudine e l’ilarità della gente, e questo è incredibilmente bello e impagabile».

Dottore, quali sono le malattie che le persone le chiedono di curare?

«Arrivano da noi persone che cadono dagli alberi, che si fanno molto male con le piroghe, a volte con arti semi amputati. Poi tantissimi parti, tanti cesarei, perché il numero di gravidanze è altissimo. Poi appendiciti, gravi ascessi. Vediamo cose inimmaginabili. L’anno scorso è arrivata qui una donna dopo cinque giorni di viaggio su un carretto sotto il sole cocente, che è l’unico mezzo di trasporto che hanno, con un’occlusione intestinale che si era fatta strada fino alla cute. Era avvolta in bende, ma si sentiva la puzza delle feci da lontanissimo. Eravamo convinti che sarebbe morta, ma volevamo darle sollievo e fare in modo che se ne andasse in maniera dignitosa. Così l’abbiamo portata in sala operatoria, abbiamo iniziato a pulire tutto, e abbiamo visto che nonostante le lesioni, i tessuti avevano reagito. Il suo intestino di muoveva ... e in un modo incredibile si era auto-rigenerato. Noi abbiamo operato, tolto tutto e pulito tutto. Dopo una settimana camminava con le sue gambe. Ho la documentazione fotografica: se non l’avessi visto non lo crederei possibile. Qui la gente ha una capacità di resistenza da noi mai vista, la mortalità in ospedale è quasi zero. Le persone sopravvivono a estenuanti viaggi di giorni e giorni nel deserto. Da noi non resisterebbero neanche un minuto».

Come siete organizzati in ospedale?

«La struttura è stata pagata da un’associazione di volontari di Bologna, gli Amici di Ampasilava, che 14 anni fa ha creato questo ospedale, poi regalato al governo del Madagascar con lo scopo di assicurare cure gratuite, cosa qui incredibile, perché tutto deve essere pagato. Facciamo anche interventi chirurgici, io, nonostante sia specializzato in Anestesia e rianimazione e anche in Ginecologia, qui opero, e sono addirittura il chirurgo ufficiale. E la gente, incredibilmente, sopravvive sempre: ma per merito loro, non certo mio. Per quanto il nostro ospedale sia piccolo, si fa il necessario per questa popolazione, che noi potremmo definire “primitiva”. Vivono senza corrente elettrica nei villaggi, i pozzi che ci sono li abbiamo in gran parte scavati noi, non ci sono strade, se non piste di sabbia percorribili con le Jeep o con i carretti trainati dagli zebù. Il nostro ospedale è alimentato da pannelli solari. Io passo qui diversi mesi all’anno, per un periodo nel 2021 sono stato qui solo insieme a mia moglie, che è infermiera, e adesso che è dovuta tornare in Italia mi manca moltissimo, sia sul piano affettivo che organizzativo: è un fulmine di guerra. Ora c’è un folto gruppo di giovani medici e infermieri arrivati da diverse parti dell’Italia per fare volontariato. Preciso volontariato vero: ci paghiamo il viaggio, e mentre siamo qui contribuiamo a sostenere l’ospedale versando ogni giorno una quota tra i 6 e i 10 euro. Tutti i soldi che riceve l’associazione vanno all’ospedale o per comprare i farmaci, non abbiamo nessun dipendente da pagare in Europa e nessun genere di rimborso è previsto per noi. Ogni sera facciamo formazione sul campo per istruire i medici e gli infermieri del posto. Con noi c’è un medico del Madagascar laureato da appena una settimana, a cui ho insegnato a fare interventi chirurgici e ora è in grado di fare i tagli cesarei da solo, cosa fondamentale. Ci sono poi quattro infermieri locali e un gruppetto di persone del villaggio che hanno imparato a parlare italiano e sono traduttori. Anche questo è fondamentale, perché qui nessuno parla francese o inglese».

C’è un fatto che le è rimasto più impresso?

«Una sera è arrivata una famiglia con il carretto: la donna ci ha spiegato di essere incinta, dicendo che da sei mesi non sentiva più muovere il bambino. “Sei mesi di feto morto” abbiamo pensato, “non è possibile”. Per fortuna però abbiamo un ecografo, e visitandola abbiamo visto che in pancia aveva davvero un bambino grande. Marcito, completamente macerato. Lei era quasi incosciente, il polso leggerissimo. Anche in questo caso, ci siamo adoperati per farla morire dignitosamente, le abbiamo dato morfina e gli antibiotici. Ma la mattina successiva era ancora viva e aveva ripreso coscienza, allora decidiamo di operarla. Mi consulto con gli specialisti in Italia. “Fate il possibile”, mi dicono, “ma tanto non c’è niente da fare”. Invece, dopo l’operazione in cui le abbiamo tolto di tutto, è stata ricoverata quattro mesi e si è salvata. Oggi, Pelavelo, così si chiama, sta benissimo e ha messo su un’attività locale in cui vende radici al mercato. Appena uscita ci ha regalato un’anatra e due polli e quando ci incontra ci getta le braccia al collo. Ma non vanno sempre bene le cose».

Cioè?

«Volevamo mandare una bambina in Italia, al Gemelli, perché venisse operata per una grave malformazione cardiaca, ma gli anziani del villaggio non hanno acconsentito che si mettesse in viaggio per l’Europa. Mi ci è voluto un po’ per capirlo, ma nella loro cultura è fondamentale che lo spirito, dopo la morte, si possa ricongiungere con quello degli antenati. Se lei fosse morta in Europa, il suo spirito sarebbe andato perduto, perché per colpa della lontananza non avrebbe più potuto ricongiungersi con quello degli avi. Ma in quel caso, la verità, è che farle intraprendere il viaggio sarebbe quasi impossibile. Perché la maggior parte delle persone che vive nei villaggi del Madagascar non ha documenti. Per lo Stato non esistono, e la bambina non aveva nessun parente con documenti di identità che la potesse accompagnare. Pensate che le uniche carte che attestano che queste persone esistono gliele diamo noi quando vengono in ospedale. Il “taratassi”, un cartoncino con scritto un numero, una data di nascita che attribuiamo noi, e la sintesi del nome che dicono di avere, (perché i loro nomi sono frasi, descrizioni di momenti che poi vengono “condensati”, niente a che vedere con i nostri nome e cognome), e con quello possono avere cure gratis. Se non lo presentano devono pagare e di conseguenza quello è preziosissimo. Le cure costano un euro, che corrisponde a 4.100 Ari ari. Per noi è niente, e per loro è una cifra altissima».

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