Parlare con Vittorio Storaro è entrare nella carne viva di alcuni dei più grandi capolavori del cinema della seconda metà del Novecento. Classe 1940, il maestro della luce, tra volte Premio Oscar (per la fotografia dei film Apocalypse now, Reds e L’ultimo imperatore) sarà sabato prossimo a Rimini per ritirare il Premio Confindustria Romagna Cinema e Industria ad honorem 2023 assegnato nell’ambito della rassegna La settima arte.
Raggiunto al telefono, è più che una lezione di cinema quella a cui si resta incollati. Un passare attraverso sequenze, immagini, luce, visioni. Cogliendo dalla sua viva voce il segreto del “marchio Storaro”, quella sintesi tutta particolare tra luce naturale e artificiale, quel suo utilizzo simbolico del colore.
Cominciamo da Bernardo Bertolucci. È con la collaborazione con il grande regista parmense che la sua carriera nel cinema ha una prima svolta a inizio anni Settanta. Cosa le piace ricordare?
«Lo conobbi sul set del suo primo film, Prima della rivoluzione, ma ero solo assistente operatore. Rimasi colpito da come utilizzava la macchina da presa. Fu per me una lezione fondamentale. Eravamo coetanei, mi chiamò a lavorare con lui dopo che aveva visto il mio primo film Giovinezza giovinezza diretto da Franco Rossi. Abbiamo fatto dieci film insieme, da Strategia del ragno (1970) al Piccolo Buddah (1993). Ogni volta che qualcuno mi chiamava per propormi un film mi confrontavo con lui».
E con lui ha girato dalla Pianura Padana a Pechino, da Parigi al Marocco agli Usa.
«Ma quasi sempre si tornava a girare una sequenza nella sua Parma o comunque in Emilia. Anche per un film kolossal come L’ultimo imperatore finimmo dopo la Cina a girare nella sua terra, a Salsomaggiore e in un palazzo degli anni Trenta. I primi film realizzati insieme sono stati del resto legati all’Emilia, Strategia del ragno e naturalmente Novecento».
Quale scambio c’era tra voi sul set?
«Quando lavorammo al primo film insieme, Strategia del ragno, Bertolucci mi mostrò un libro di dipinti di Magritte. Io non avevo dimestichezza con l’arte surrealista. Scoprii che si poteva lavorare sul rapporto tra luce naturale e luce artificiale».
Poi ci fu “Il conformista”, ambientato anche a Parigi, come “Ultimo tango”.
Prima de Il conformista non si facevano film drammatici a colori ma solo in bianco e nero. Il colore era solo per i western, le commedie, i musical. Per me fu fondamentale, prima di conoscere Bertolucci, scoprire Caravaggio: quando vidi La vocazione di San Matteo nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma capii che la luce poteva essere utilizzata con un significato artistico e filosofico. Di lì in avanti studiai molto, anche il simbolismo dei colori».
Come fu realizzare un kolossal come “L’ultimo imperatore”? Migliaia di comparse, il permesso di girare addirittura a Pechino nella Città proibita…
«Per la scena dell’incoronamento dell’imperatore da bambino girammo con tremila persone che facevano i soldati dell’esercito. Per quel film feci una proposta di uso dei colori che piacque a Bertolucci e la adottò. Dopo avere letto la sceneggiatura, ragionando sul fatto che il film era basato su tanti flashback e tenendo presente che lo stesso Bertolucci si rifaceva anche alla psicoanalisi, proposi di utilizzare cromatismi diversi per le varie fasi della vita del protagonista. Così quando nasce il piccolo imperatore abbiamo usato il primo colore dello spettro solare, il rosso. Poi le luci del tramonto per quando arriva nella Città proibita a dare il senso del tepore familiare. Per arrivare al giallo, il colore del sole, quando viene incoronato, il verde della conoscenza quando riceve gli insegnamenti del tutore, l’azzurro quando viene cacciato dai signori della guerra e diventa playboy».
Nel 1979 esce invece “Apocalypse now” di Francis Ford Coppola, le riprese durarono quasi un anno e mezzo e furono realizzate nelle Filippine. Fu un set complicatissimo. Cosa ha rappresentato per lei lavorare a quel capolavoro?
«Quando fui contattato agli inizi ero scettico. Dissi a Coppola: cosa c’entro io con un film di guerra? Mi convinse spiegandomi che non era un film di guerra ma su quello che accade quando un Paese, una cultura, si sovrappone a un’altra. Mi disse di leggere Cuore di tenebra di Conrad e capii. Quando fummo sul set si presentò un problema con Marlon Brando che non voleva più recitare in quel film. In Ultimo tango, dove avevamo lavorato insieme, era protagonista. Qui si ritrovava in una parte in cui compariva solo a un certo momento del film. Provai con l’attore Martin Sheen la scena in cui lo incontra per la prima volta. Lui appariva con la sua silhouette davanti a una porta dietro alla quale c’era la figura di Kurt, interpretata da Brando. Mostrai come la sua figura, utilizzando una lama di luce, poteva uscire poco a poco dalla penombra. Dissi a Marlon Brando: ti lascerò un piccolo raggio di luce che sentirai sull’occhio destro. Si convinse a restare. Nell’interpretare quella scena fu un genio».
In occasione de “La settima arte” si potrà vedere oltre ad “Apocalypse now”, a “Novecento”, “Ultimo tango a Parigi”, “L’ultimo imperatore”, i film che lei ha girato con Warren Beatty (“Reds” e “Dick Tracey”) anche “Caffè Society” di Woody Allen. Com’è lavorare con lui?
«Woody è un grande scrittore. Come avveniva con Bertolucci, Allen mi spiega la storia e io gli propongo come visualizzarla. Facciamo prima una prova con gli attori e poi lui fa le sue modifiche, tutto funziona in maniera non statica. È straordinario».
Informazioni, prenotazioni e programma completo www.lasettimarte.it