Mafia, rivelazione choc del killer pentito Mutolo: "La mia base era a Rimini"

«Facevamo furti nelle case nel Nord Italia. Di base stavamo a Rimini, in via Garibaldi, nella stanzetta sopra al ristorante della sorella di Michele e Salvatore Vizzini, nipoti del famoso don Pippo Calò (cassiere di Cosa Nostra già coinvolto nella morte del banchiere Guido Calvi, con legami con la banda della Magliana e il terrorismo nero, ndr)». È una rivelazione clamorosa per la città dei Malatesta quella che Gaspare Mutolo, killer pentito di Totò Riina, affida al settimanale Oggi, già in edicola.
Una lunga intervista rilasciata a pochi giorni dall’uscita del programma di protezione testimoni dove era entrato 30 anni fa grazie alla collaborazione con i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con cui si era pentito, dando un prezioso contributo alla guerra dello Stato contro la Mafia. «Allora - prosegue Mutolo diventato dietro le sbarre pittore - non esistevano le porte blindate. Facevamo finta di essere rappresentanti della Fabbri Editore e suonavamo alle case più belle. Se aprivano mostravamo gli opuscoli delle enciclopedie, altrimenti le svaligiavamo. Giravamo tutta Italia», ma poi «al sabato rientravamo a Rimini».
Mafia e Riina
Un “aneddoto” sconosciuto quello di Gaspare Mutolo che spiega l’“arte” dell’infiltrazione nel tessuto sociale romagnolo e nel riminese. Una cosa “negata” tanto da far bollare come matti chi la ipotizzava, fino al ritrovamento di due corpi senza vita, con i volti incappucciati dai sacchi della spazzatura, nel bagagliaio di una Opel Omega parcheggiata nell’area di servizio autostradale a ridosso di Rimini, il 25 ottobre 1991. In realtà, anche se molti preferivano non vedere, il tentativo di “colonizzazione” era in atto da tempo per una serie di fattori in primis i soggiorni obbligati introdotti dalla legge 575/1965, l’alta concentrazione di attività turistiche e la domanda di droga nella zona, tra le più elevate nel Paese. Totò Riina, l’ultimo capo dei capi riconosciuto, ne sapeva qualcosa visto che nel tempo alcuni suoi emissari hanno gestito per lui in Romagna più di un affare. Perfino quel duplice omicidio di trentuno anni fa lo si è scoperto solo a distanza di tempo grazie ad alcuni pentiti, può essere considerato come un favore a “U Curtu”, sebbene come mandante sia stato condannato in via definitiva il cognato di Riina, Leoluca Bagarella. Una delle vittime, Agostino D’Agati, a sua volta sorvegliato speciale dirottato in Romagna, era il vero bersaglio del regolamento di conti, mentre l’altro uomo – Ernesto Buffa, rappresentante di cosmetici – pagò solo il fatto di avere accompagnato il vicino di casa all’appuntamento con la morte. Un magazzino riminese dove andava a comprare un piumone: ad attenderlo c’erano i killer. Tra gli artefici dell’operazione, condannato in concorso, c’era anche un altro “riminese”, Santo Mazzei (in zona viveva anche il fratello Matteo, considerato il basista dell’agguato), che per quel favore venne affiliato a Cosa nostra e più tardi incaricato da Riina in persona di altre azioni dimostrative. Attorno a quell’ambiente si appuntarono anche i sospetti per il delitto di Maurizio Belloni, un bolognese punito per uno sgarro. L’uomo fu ritrovato in mare annegato e incaprettato al largo di Rimini: un delitto ancora insoluto.
I tentacoli della mala
I segnali più evidenti dell’infiltrazione mafiosa subita dalla Riviera romagnola si erano avuti a partire dagli anni Ottanta quando Giacomo Riina, zio paterno di Totò e imparentato con Luciano Liggio, domiciliato tra Budrio e Rimini, subentrò ad Angelo Epaminonda nel controllo delle bische in Romagna. Perfino all’indomani dell’arresto di Riina, che risale al gennaio 1993, Rimini continuò ad accendere le peggiori fantasie dei suoi affiliati. «Volevamo piazzare brioscine avvelenate nei supermercati, e spargere siringhe con il sangue infetto dall’Aids sulla spiaggia di Rimini – rivelò infatti Giovanni Brusca, l’uomo che premette il telecomando dell’attentato di Capaci (il 23 maggio del 1992) in cui morirono il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta, per poi divenire ca sua volta collaboratore di giustizia –. Ci furono riunioni e il progetto delle siringhe era a buon punto, tanto che stavamo già cercando di procurarci il sangue. L’idea era di nascondere le siringhe sotto la sabbia… ».

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