Il Dante del forlivese Alberto Casadei

Con il nuovo saggio, “Dante. Storia avventurosa della Divina commedia dalla selva oscura alla realtà aumentata” (Il Saggiatore), Alberto Casadei si ripresenta sulla scena culturale italiana a pochi mesi dal fatidico 2021, che segnerà i 700 anni dalla morte del grande poeta fiorentino.

Convegno a maggio a Forlì

Casadei, forlivese, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Pisa e coordinatore del Gruppo Dante dell’Associazione degli italianisti, è stato fra gli animatori principali del primo “Dantedì”, tenutosi lo scorso 25 marzo, e da mesi sta lavorando a un importante convegno che proprio a Forlì nel maggio 2021 (e speriamo che il Covid-19 lo consenta) farà il punto sugli studi e anche sulle interpretazioni che di Dante dà la modernità.

All’avvicinarsi dell’anniversario la curiosità per l’autore della Commedia cresce, ma il libro di Casadei sta avendo un’accoglienza davvero da best-seller: è infatti alla seconda ristampa e ha ottenuto recensioni e interviste sul “Corriere della Sera”, “Il Sole 24 ore” e a “Fahrenheit” su Radio 3.

«Questo libro però – commenta Casadei – è stato pensato come una biografia “intellettuale”, che indaga su cosa il poeta abbia effettivamente scritto, cosa abbia voluto dire, e perché, come succede a Shakespeare, venga continuamente riletto e interpretato, anche in bellissime versioni teatrali, per esempio quella di Romeo Castellucci di Socìetas Raffaello Sanzio. Dante del resto vive fra epoche diverse, un po’ uomo del Medio Evo come attestano i primi quattro canti dell’Inferno, mentre poi, da Paolo e Francesca, si immerge nel racconto in un modo che è l’elemento di continuità e vicinanza con le epoche successive, al di là dei parametri storici, culturali, religiosi. Dante infatti affronta gli stessi problemi del narratore moderno: deve immaginare un mondo che ha elementi “fantasy” o scenari futuribili. Qui stanno la sua capacità mitopoietica, la creatività in grado di cambiare continuamente le prospettive».

Il libro peraltro contiene diverse novità: lei sostiene infatti che la famosa “Epistola a Cangrande” sia un falso, e sfata anche diverse notizie pervenuteci da Boccaccio, come quella che i primi sette canti fossero stati composti a Firenze.

«E faccio anche notare che il titolo Comedìa non è mai usato da Dante: lo scrittore morì prima della divulgazione del Paradiso, quindi forse fu la tradizione a elaborarlo… Mi sono concentrato però soprattutto nel dimostrare quanto il poeta sia vicino alla nostra sensibilità nel modo di montare le immagini, o nella rappresentazione di un luogo come l’Empireo, che è una realtà “virtuale” proprio come quella che affronta oggi l’autore di fantascienza, oppure nella fantasia “cinematografica” che dimostra, per citarne uno, nel XXI dell’Inferno con i diavoli di Malebranche e Martin Bottaio da Lucca. Insomma, Dante è diverso da noi per tanti aspetti, ma per altri racconta come facciamo noi, con modalità di narrazione diverse da quelle “naturali” nel Trecento. Dovendo rappresentare un mondo totalmente altro, inizia ispirandosi al suo maestro: e il III dell’Inferno è un… “copia e incolla” del VI dell’Eneide! Diventando però sempre più consapevole delle proprie capacità, arriva a immaginare l’Empireo come un “non luogo”, perfettamente razionale».

Un ossimoro?

«Ma la sua capacità visionaria è basata proprio sul razionalismo aristotelico e condensa cose normalmente separate con un salto di creatività, con processi analogici propri dei veri geni. Così, il primo canto è Medioevo puro, ma poi la prospettiva cambia nelle immagini del Primo mobile e dei cieli: una “realtà potenziata”, anzi “aumentata” che ci fa sentire Dante così nostro».

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