Il cuore degli ucraini riminesi: "Nessuno di noi odia i russi"

Nei (pochi) momenti di pausa, tirano il fiato accovacciati e accovacciate sugli scatoloni: un cartone di pizza, bottiglie di acqua e bibite gassate. Sembra una scampagnata ma non lo è. Sono già le tre del pomeriggio ed è solo il pasto breve che si concedono i volontari – a decine - che da giorni lavorano instancabili nel padiglione della Fiera di Rimini. Ingresso ovest. Si entra con il green pass. Un grosso camion è parcheggiato su un lato. Ormai pronto. Destinazione Leopoli. Un andirivieni di persone, furgoni e auto fanno intuire che siamo nel posto giusto. In uno dei crocevia in cui la Storia, anche qua da noi, ha maledettamente incrociato le storie di centinaia e migliaia di persone, di vite “comuni”. Gli ucraini “riminesi” – ma con loro ci sono e si avvicendano in questi giorni anche altre nazionalità dell’est Europa, persino russi, oppure africani – si sono “arruolati” in massa. Per portare aiuto ai loro connazionali assediati dalle armi e dalle bombe di Putin.

La voglia di parlare, di raccontare c’è. Anche se il tempo è poco. Ci sono decine e decine di scatoloni da riempire, di cibo e medicine, di vestiti, coperte. La stanchezza, la tristezza, la preoccupazione, per le notizie che arrivano dall’Ucraina, si leggono sui volti. Su quello di Svetlana, 42enne da oltre vent’anni a Rimini, un fratello 36enne militare, ora impegnato sul fronte a Kiev. La tensione (la rabbia anche) è tutta nel modo in cui fuori dall’ingresso, stretta in un angolo, fuma nervosa una sigaretta. Una boccata anche d’aria, poi si torna dentro a riempire scatoloni. Devono partire al più presto. «Non abbiamo nulla contro i russi» dice Svetlana. La stessa cosa la dicono un po’ tutti. Anche Maria, 51 anni, da parecchi in Romagna, «perché in Ucraina era diventato impossibile vivere, sempre condizionati dagli uomini di Putin». Ora il presidente Zelensky che finalmente piace. «In tutti questi anni ho lavorato in hotel, ho fatto la badante, le pulizie» racconta la donna ed è un fiume in piena. «I miei figli hanno studiato qui. In Ucraina ho una sorella infermiera, è scappata con la figlia di 5 anni in Polonia, ha portato con sé solo una borsa. Piangiamo tutti in questi giorni e appena ho saputo sono venuta qui ad aiutare».

Da Riccione, dove fino a prima del Covid gestivano un bar narghilè, è arrivata quasi al completo la famiglia Koupak: il padre Oleg, la madre Larissa, il figlio Vlad, 25 anni, che ha un italiano senza accento, la scuola l’ha fatta qui. «Stiamo dando una mano dall’inizio – spiega Larissa – Solo nostra figlia non riesce a venire perché a casa con un bambino di 11 mesi». Il pensiero è ai parenti in Ucraina. «Un cugino vive a Kiev e passa le giornate nel rifugio nei sotterranei. Ha un figlio arruolato volontario e ora stiamo cercando di fare venire la moglie qua da noi».

Anche Olga, 36 anni, un marito che lavorava per una azienda di trasporti, due figli, pensa al padre, rimasto in Ucraina, e a una amica. Vorrebbe venissero via: «Ma non vogliono partire». «Questa guerra ha fatto nascere in tutti noi l’orgoglio di essere ucraini. Sta succedendo in Ucraina, ma sta succedendo anche qui tra noi». Prima del Covid Olga lavorava per tour operator turistici: «Russi, ucraini… non c’era alcuna differenza».

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