Il cibo nelle mani delle donne, intervista a Giuseppina Muzzarelli

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IMOLA. È una miniera di spunti il libro “Nelle mani delle donne” di Maria Giuseppina Muzzarelli, medievista e scrittrice, docente all’Università di Bologna che sarà ospite sabato pomeriggio alle 17.30 on line (pagina Facebook del Baccanale e di Cibo) nella rassegna di incontri pensati da “Cibo” per il Baccanale 2020. Un viaggio che va all’indietro e torna al presente per raccontare come tanta parte dei nostri costumi, delle idee che abbiamo di noi e della società passi attraverso il cibo, e specialmente quanto questo abbia condizionato, nei secoli, la vita delle donne. In molti modi, costringendole nelle case senza possibilità di evolvere, affidando alle loro mani un grande potere, quello di curare e a volte di uccidere, quindi attraverso la scrittura uno strumento anche di affermazione o di impegno sociale.

Vorrei cominciare da questa immagine che lei riporta nel libro: Grazia Deledda che ritira dal messo la notizia del conferimento del premio Nobel con le mani che odorano di cipolla perché sta preparando il sugo e di Doris Lessing che si trova a ricevere lo stesso annuncio con le borse della spesa in mano. Ecco questa immagine doppia racchiude molto del senso del rapporto fra le donne e cibo, donne dentro e fuori la loro casa-cucina.
«Di questa immagine vorrei evidenziare elementi positivi e negativi. Le due donne premio Nobel in questo frangente sanno dare di loro stesse non soltanto la rappresentazione alta di intellettuali arrivate a quel livello, ma ci tengono anche alla rappresentazione “bassa” di donne che sanno cucinare e fare la spesa, è un elemento dal quale giustamente partire perché raddoppia il valore di queste figure. Non sono soltanto grandi intellettuali ma persone che si sono tenute ben strette anche la vita. Diciamo che questo ci consente di ragionare su vita o carriera e vita e carriera. Noi crediamo che sia una questione molto attuale, ma l’idea di rendere possibile anche alle donne un avanzamento è molto più antica e da medievista sono in grado di dire che già nel Medioevo si trovano tracce della consapevolezza che può essere possibile anche per le donne aspirare a una carriera. Quindi la traccia della consapevolezza c’era, ma poi storicamente si deve arrivare a questi giorni per vedere una donna vicepresidente degli Stati Uniti d’America. C’è una figura che ho molto studiato, e che ogni volta che le vado a chiedere qualcosa mi risponde, è Christine de Pizan, ovvero Cristina da Pizzano, che ha vissuto fra 1300 e 1400 a Parigi alla corte di Carlo V, e per questo mutò il nome in francese, ebbene questa è la prima intellettuale donna di professione. È stata anche figlia, moglie e madre e ha saputo giocare su questi due tavoli, fra l’altro essendosi sempre arrangiata in quanto vedova. Fra le molte riflessioni interessanti che ci ha lasciato ne cito una per tutte: se ci fosse l’abitudine di educare le bambine come si educano i bambini arriverebbero agli stessi risultati. Insomma la coscienza del tema c’era, ma allora era prevalente il fatto che la donna dovesse stare nei suoi ruoli e panni, in famiglia o in cucina. Da lì c’è stato un lungo cammino per guadagnarsi il diritto alla carriera possibilmente senza perdere il diritto alla vita che comprende anche la cucina. Quando le due premio Nobel mostrano di riuscire a tenere insieme i due livelli è una bella testimonianza del fatto che possano convivere una formazione alta che con pervicacia si è tenuta ancorata a un registro più quotidiano».
La relazione attraverso i secoli fra donne e cibo ci aiuta a scoprire codici del quotidiano sulla cui costruzione forse non siamo nemmeno del tutto consapevoli. Forse perché troppo a lungo è mancato lo studio e il racconto di questa relazione?
«In effetti mi ha molto stupito che con tante persone che si sono occupate di cibo, storici, antropologi, semiologi, questo tema non sia stato mai molto studiato. Invece secondo me ha quattro valenze molto importanti. La prima: la donna che si fa cibo per il proprio nato. Apparentemente la più naturale ma che in realtà è una relazione culturalmente costruita, basta pensare alla lunga storia del baliatico che dura fino ai primi del Novecento. Poi quella della necessaria misura: le donne per secoli, e per certi versi anche oggi, hanno dovuto mostrarsi svogliate a tavola, non bere vino, perché la voglia di cibo è qualcosa di rischioso che può far saltare gli schemi. La donna che non sa disciplinarsi a tavola magari non disciplina se stessa neanche in altre relazioni, da qui il secolare obbligo arrivato fino ai giorni nostri anche se oggi ha un’altra interpretazione, l’obbligo della taglia 42. Altro tema è quello della doppia finalità del ruolo della donna in cucina: nutrire ma anche aggiustare relazioni. Ildegarda di Bingen è una grande mistica e intellettuale dell’XI secolo che ha scritto musica incredibile e un’ enciclopedia degli elementi, erbe, animali e minerali. Quando li descrive non solo ne elenca le tipologie, ma anche l’uso che se ne fa in cucina per far stare meglio le persone. Quindi alimentazione non solo a fini nutritivi, ma anche a fini di curativi. E questo mi pare un elemento che caratterizza abbastanza, nel lungo periodo, il ruolo della donna in cucina. Anche quando le donne cominciano, tardi fra ’800 e ’900, a scrivere ricette, e osservo che “ricetta” è la stessa parola in termini culinari e medico farmaceutici, di solito sono semplici testi quotidiani precetti anche minuti utili nel quotidiano. Uno dei punti di arrivo è Amalia Moretti Foggia, Petronilla, lei è un medico, la prima pediatra d’Italia che si firma come dottor Amal e Petronilla, e di nuovo unisce cucinare e star meglio, aggiungendo suggerimenti da medico a una cucina che deve risolvere anche una serie di problemi, specie durante la guerra. Questa dimensione della cucina come modo anche per aggiustare relazioni la trovo ricorrente. L’ultimo punto è che le donne scrivono tardi di cucina e lo fanno non per fare trattati, Petronilla stessa avrebbe potuto farlo, era laureata. Esiste un canone letterario che si è imposto e che ha una matrice femminile, oggi fin troppo in voga, quello di descrivere famiglie e periodi storici attraverso ricette. Testi che uniscono ricette e di ricordi, relazioni famigliari da tramandare, un filo di memoria che si impasta con gli ingredienti del piatto. Oggi anche uomini scrivono questo genere di libri, ma lo hanno iniziato le donne che hanno cercato di fare in questo modo una sorta di manutenzione della memoria. Le donne non sono state autrici di grandi testi alla Messisbugo, ma raccoglitrici e tramandatrici di ricette impegnate nel restauro dell’equilibrio, in una cucina domestica che è diventata dimensione necessaria oggi anche a chi pensava di poterne sfuggire».
Il cucinare come strumento di manutenzione o costruzione di relazioni, per le donne ha comportato anche la possibilità di esprimersi o esercitare un potere sia pure in un contesto di casa o di corte.
«Torniamo al mio Medioevo. La stessa strega nell’epoca in cui ancora non c’era la condanna, era una persona che risolveva professionalmente certi problemi, spesso creando bevande o cucinando. Nel mio libro parlo di un certo Burcardo vescovo di Worms che nel X secolo scrive un libro penitenziale, ovvero che serve ai sacerdoti per amministrare le penitenze, in cui c’è un capitolo intero sui peccati delle donne. Allora non mi occupavo di cibo, ma avevo sempre tenuto queste schede da parte perché in questa sezione c’erano cose straordinarie: ad esempio un caso di donne che collettivamente cucinano un pane o che cuociono pesci in certe maniere particolari per darle ai mariti per indebolirli o rinfocolarne gli abbracci, non c’era viagra… si usava il cibo. Donne che quindi avevano conoscenze, capacità e quindi potere».
Fra le prime autrici di testi che parlano di cibo, ci sono monache del Medioevo. Che sono comunque donne fuori dal contesto della casa e possono avere una dimensione intellettuale agevolata rispetto a quelle che vivevano in contesto domestico, dentro la casa.
«È giusto, queste donne hanno il tempo e l’occasione. Sono però fuori dalla casa ma dentro un’altra istituzione, una comunità solo di donne, con delle esigenze precise. Sono dentro e fuori insieme, l’istituzione che ha bisogno di scrittura e una sua cultura da codificare. È un contesto che facilita questo tipo di impegno e sono donne che in effetti hanno relativamente meno cure da ottemperare».
Poi, come ci ha già raccontato, è fra Ottocento e Novecento che le donne diventano autrici di ricettari e di libri sul cibo editi. In un periodo che è sostanzialmente lo stesso di Artusi, che in genere è l’unico nome che emerge. Invece ci sono molte donne interessanti che fanno lo stesso lavoro con registri e finalità diverse.
«Quello che caratterizza Artusi è il fatto di non rivolgersi più agli ambienti nobiliari, ma ad un ambiente mediano dando una sistematicità alle ricette di tutta Italia. La sua è sicuramente un’opera innovativa e molto importante, nella quale si sente molto l’imprinting maschile: la sistematicità, la volontà di scrivere un trattato “di scienza” in cucina. Di lì a pochi anni donne, prima del 1981 e subito dopo, donne hanno scritto di cucina ma con un altro taglio. Ad esempio il titolo di una queste raccolte che io trovo molto interessante è “Come posso mangiar bene. 300 precetti e 756 ricette di vivande comuni facili ed economiche adatte agli stomachi sani e a quelli delicati”. Non un trattato, ma una raccolta di consigli per nutrire e anche supplire a necessità economiche. Le donne sono più vicine alla vita quotidiana. Non dico che sia elemento esclusivo delle scritture femminili, ma è molto presente e il caso più evidente è quello che dicevamo prima di Amalia Moretti Foggia che rinuncia anche al suo nome, non c’è l’autorialità dell’Artusi, ma ha lasciato centinaia e centinaia di ricette e ha insegnato come preparare un pranzetto svelto per il maritino, un linguaggio che un po’ ci infastidisce, ma che doveva essere vicino alla signora comune che leggeva la Domenica del Corriere, magari dopo che l’ aveva letta e spiegazzata il marito, pagine dove trovava ricette in cui lei avvertiva questo senso di vicinanza. Un altro aspetto si avverte di più nella grande quantità dei ricettari famigliari della memoria, che poi è diventato come dicevamo prima un canone letterario. Adesso ne abbiamo metri lineari in libreria, ma è una cosa di appena venti - trenta anni fa».
Successivamente si aggiunge la cesura del femminismo. Negli anni Sessanta e Settanta le donne rifiutando programmaticamente i compiti domestici accelerano la propria emancipazione. Femminismo e cucina che rapporto hanno avuto e come si è voluto? Oggi ci sono donne che si possono definire tranquillamente femministe ma che cucinano anche…
«Credo si definisca per generazioni. La generazione di mia madre, donne adulte nel Dopoguerra, hanno voluto che le figlie studiassero, tutte le ragazze nate da dopo la guerra al 1958, le cosiddette baby boomer, sono state indotte dalle madri a non stare in cucina. E queste ragazze hanno studiato e si sono affermate ed è la generazione di un certo tipo di impegno femminista. Poi questa generazione solo con il tempo si è riconciliata tardivamente con la cucina. E le loro figlie, le donne che oggi hanno trent’anni, addirittura manco hanno capito che c’è stato questo distacco. E così anche molti uomini che hanno capito che c’è un valore di compensazione in cucina, di socialità, di appropriarsi di una cultura. Hanno capito che cucinare era qualcosa di più di una fatica, anche una forma di creatività. In tre generazioni sono cambiate molte cose».
Quindi se nella cucina domestica si è raggiunta sostanzialmente la parità, in quella professionale non è ancora successo però. Come mai secondo lei?
«Ne faccio una questione di potere e di conciliazione della vita con la carriera. Laddove parliamo di vere e proprie star, mica ti fanno spazio. Entrare nelle linee alte, laddove si creano dei destini di privilegio, prevede una concorrenza terrificante e diventa dura lasciare spazio alle donne le quali hanno il solito tema di tenere insieme più aspetti della loro vita e quindi fanno anche fatica a fare turni massacranti. Devono davvero conquistare palmo a palmo la vetta e non ce la fanno se scelgono di mantenere altri tavoli su cui giocare. Il tema della difficoltà delle donne di affermarsi professionalmente rimane. Anche per le giovani oggi non la vedo risolta».

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