Il cesenate Stefano Zanoli e il suo "Una foresta di giorni"

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Grecia, Madagascar, Stoccolma... Pensieri, riflessioni, itinerari compiuti lungo i sentieri di Una foresta di giorni di Stefano Zanoli: «Non solo un “libro di viaggi”, ma un pretesto – per lo scrittore e docente cesenate, recente autore per L’Arcolaio di “Una stagione in Nigeria” – per cercare altrove quello che qui ancora non abbiamo trovato». Il volume delle edizioni Il Vicolo, con una lettera-postfazione di Luigi Riceputi, su progetto grafico di Marisa Zattini con fotografie dell’autore, è come una geometria di aeroporti, bar, osterie, alberghi e volti, che appaiono come metafore, su cui interrogarsi senza aspettarsi definitive risposte. Così la scogliera di Södermalm, negli occhi dell’autore, diventa un vento nel quale la fascinazione dell’intreccio di spazio e tempo dei giorni della vita soffia sulle cose che accadono. Uno stesso aereo passa verso l’aeroporto di Arlanda, poi Lisbona, Söder, come nei film di Wim Wenders.

Zanoli, quale filo lega questi itinerari?

«La parola filo, che lei usa, è cruciale. Il libro parla di viaggi e essenzialmente quello che cerca di fare è “costruire una mappa”. Una mappa dello spazio e del tempo in cui viviamo, per orientarsi in quella foresta o selva “spessa e viva” che attraversiamo e in cui siamo immersi come in un labirinto. Scrivere è tracciare un sentiero (e così leggere è, specularmente, seguire un sentiero tracciato..) nel folto della vita spesso indecifrabile, il tentativo di trovare o inventare un senso (un filo, appunto), di opporsi al disordine, al caos, di scampare al Minotauro. E poi, come dice Silone: “scrivere.. per trasformare l’esistenza in coscienza”».

In che maniera nel viaggio il tema primario è il piacere della conoscenza, ovvero «del rapporto tra ciò che accade e il nostro assistervi e descrivere e giudicare… e vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l’uomo»?

«Naipaul, uno scrittore che mi piace molto, dice una cosa elementare a questo proposito: “Ecco perché si viaggia e si scrive: per scoprire. Per aggiungere poi, sempre a proposito del rapporto tra vita, viaggio, scrittura. In seguito sul mio taccuino aperto cadde dell’acqua, l’inchiostro sbavò, il foglio s’increspò del tutto; misi via il taccuino e non l’usai mai più. Così quell’esperienza rimase dentro di me, non sfiorata dalle parole, e le sue implicazioni restarono inesplorate”. Ecco: scrivere è come “strizzare gli occhi” per mettere a fuoco la realtà, accendere una torcia nel bosco. Capire, ma anche, raccontando, inventare. Diceva Agnes Heller: “L’identità (cioè chi siamo, dico io) non è che quello che ci raccontiamo”».

Qual è l’importanza di vedere le cose con «la baudelairiana meraviglia avida di carte e stampe nell’era pre-googlemaps»?

«Lo sguardo infantile, col suo stupore – thaumazein – è come un tesoro sepolto. È lo “sguardo del principiante” che ci riporta alla grazia della semplicità e all’emozione della vita, dico della vita anche quotidiana, casalinga, presente, apparentemente o realmente “banale”, come forma di avventura. La vita (e la morte) come «ventura delle venture», per dirla con Montale. Quando si viaggia si prova una sorta di “riduzione”. Un grande viaggiatore, Nicolas Bouvier, nel suo diario di viaggio, La polvere del mondo, dice che viaggiando, spogliati del contesto abituale e delle abitudini come di un voluminoso imballaggio “l’anima prende forma strofinandosi a contatto con la diversità”».

Perchè quindi lo sguardo del viaggiatore, «inquieto storico del presente», va sempre oltre ciò che si vede e si cerca?

«Lo sguardo del flaneur, titolo di un bel libro ispirato alla figura celebrata da Benjamin, è quello del vagabondo che osserva il mondo con consapevolezza e attenzione, e soprattutto con simpatia e empatia. È un esploratore che cammina e va incontro al mondo (anche se, come l’angelo della storia di Benjamin, mentre avanza ha lo sguardo rivolto al passato). Una forma di “presenza mentale” con cui si attraversano i giorni della vita con apertura e semplicità. Questo libro non è che un oggetto che contiene “lacerti di vita”. È un racconto di quattro stagioni e del groviglio della vita fatto di incontri e pensieri. È stato scritto anche perché scrivere, raccontare, è un modo per vivere di più».

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