Il caso: i pazienti a fine vita e il supporto ai caregiver

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Come un fulmine a ciel sereno: la diagnosi di una grave malattia a prognosi infausta sconvolge drasticamente la vita del malato, ma anche dei suoi cari, spesso spazzando via ogni certezza e speranza per il futuro. Sia il paziente che il caregiver (colui che si prende cura del malato) si trovano a vivere insieme una condizione difficile, ma irrimediabilmente sono anche soli, ognuno con le proprie paure e preoccupazioni per l’altro. Quali sono gli stati d’animo, le tematiche ricorrenti e i bisogni del caregiver lo chiediamo alla psicologa Carlotta Laghi, che si occupa di supporto psicologico per pazienti oncologici e per i loro familiari per lo IOR (Istituto oncologico romagnolo).

Dottoressa, quali sono le tematiche che portano i caregiver a chiedere supporto?

«Un denominatore comune è sempre la fatica: quella di dover assistere in maniera empatica, amorevole e senza perdere la speranza il proprio caro; ma dall’altro canto anche quella legata alla necessità di rivedere la progettualità. In molti casi si tratta di iniziare un processo di distacco in vista della perdita più o meno imminente. Sottolineo che qui sto parlando tendenzialmente di “fine vita”, molto diversa è la situazione per quanto riguarda il supporto a familiari di pazienti che non sanno ancora come evolverà la malattia. Nelle famiglie che si preparano ad affrontare il fine vita di un loro caro, la difficoltà maggiore è proprio questa: continuare a reggere, senza farsi soffocare dal dolore».

Quali sono le emozioni predominanti che si provano in questa condizione?

«I vissuti emotivi cambiano molto da persona a persona, ma la rabbia è presente nella stragrande maggioranza: rabbia per quello che sta accadendo; inoltre un forte senso di impotenza e di ingiustizia. In alcuni casi è presente anche una grande tristezza per il fatto di volersi godere gli ultimi momenti con il proprio caro, ma di non riuscire a farlo. Generalmente, sia il paziente che il caregiver attraversano una serie di fasi che portano all’accettazione della malattia. Inizialmente possono provare entrambi shock, accompagnato da incredulità e angoscia rispetto alla diagnosi. Poi è comune che scatti una sorta di negazione: “non è possibile”. Questo è il momento dove si ricercano secondi pareri e ci si rivolge ad altri medici, al fine di ricevere una risposta che smentisca la prima. Infine sopraggiunge l’accettazione, momento in cui avviene la rielaborazione di quanto sta accadendo. Questa è la fase in cui si chiede un aiuto psicologico».

Chi è che chiede aiuto generalmente?

«Sono soprattutto le donne e in particolare le figlie e le mogli. Sebbene il dolore le accomuni tutte, in realtà si trovano a fare i conti con bisogni e necessità differenti. Le prime devono rinunciare a una figura di riferimento importante della loro vita; le seconde devono spesso riorganizzare la propria quotidianità e ripensare totalmente la propria esistenza».

Come si possono supportare a livello psicologico queste persone?

«Dando loro uno spazio in cui essere ascoltate, in cui verbalizzare il dolore. Come dicevo all’inizio, è molto difficile reggere davanti al malato, senza lasciarsi andare. Tra le quattro mura dello studio possono abbandonarsi al dolore, chiamarlo per nome e rimanere centrate su sé stesse, senza pensare sempre alle reazioni che possono far scaturire nell’ammalato. Molto spesso c’è bisogno di iniziare un lavoro di separazione. Molte di loro arrivano in terapia parlando di “noi”: “abbiamo fatto una visita” oppure “oggi stiamo meglio”. Questo è un tentativo per tenere il proprio amato più vicino possibile. Bisogna, però, prendere consapevolezza della propria identità, percepirsi come un sé separato, per non rischiare di perdersi quando arriverà il momento effettivo del distacco».

Quanto dura un percorso del genere?

«Di solito si tratta di una decina di incontri che vanno avanti anche dopo il lutto, proprio per aiutare a elaborare la perdita. Molto spesso alle persone basta essere rassicurate rispetto al fatto che quello che stanno vivendo è normale, che quella sofferenza e quelle ansie fanno parte del percorso, che non sono i soli a viverle. Quando ci si trova, invece, davanti a situazioni più complicate con problematiche psicologiche pregresse, si invita il paziente a continuare il percorso intrapreso, inviandolo ad altri servizi o ad altri professionisti».

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