I grandi classici, è da lì che nasce l'amore per i libri

FORLi'. È difficile per me stilare una classifica dei “libri del cuore”. Lettrice compulsiva, anzi, “bulimica”, è da tutta la vita che accanto a me c’è un libro, o anche più di uno: squadernato a faccia in giù, con un segnalibro occasionale, aperto e magari precariamente abbandonato su una poltrona o su un tavolo. Migliaia di libri, quindi, letteralmente ingoiati… Le mie cattive abitudini implicano spesso la rilettura, per non rischiare di non ricordare quello che ho letto, se non attraverso una semplice impressione… La mia formazione è classica, quindi fra gli “irrinunciabili” ci sono tutte le opere del teatro greco, che però, appunto, sono opere di teatro, pagine di “Guerra del Peoloponneso” di Tucidide, i lirici: da Alcmane a Tirteo, da Teognide a Saffo… Gli scrittori greci hanno raccontato l’uomo a se stesso in maniera insuperata, a mio parere, e credo che chiunque ci si accosti, anche senza una formazione specifica, non possa non accorgersene, rintracciando anzi, forse con sorpresa, tratti di sé in figure rappresentate migliaia di anni fa…
Però molto altro è venuto dopo: come “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Márquez, “Possessione” di Antonia Byatt, “Rumore bianco” di Don De Lillo, “Le correzioni” di Jonathan Franzen, “Danubio” di Claudio Magris, “Il museo dell’innocenza” di Orhan Pamuk, “Memorie di Adriano”, di Marguerite Yourcenar, “Ogni cosa è illuminata” di Jonathan Safran Foer, “La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth, i bellissimi e inquietanti racconti di “La fortuna ti sorride” di Adam Johnson, “Ulisse” di James Joyce. E poi un sequel, quello delle avventure di Aristotele “detective” firmato da Margaret Doody: docente universitaria, profonda conoscitrice del mondo antico, attraverso lo spaccato di vita quotidiana offerto dalle orazioni giudiziarie del V e IV secolo, Doody rappresenta un’Atene ormai sotto il dominio macedone, ma in cui balzano agli occhi, come figure vive, argentieri e prostitute, ricchi decaduti e scultori. Le inchieste del filosofo di Stagira e del suo allievo Stefanos portano il lettore in tutto il Mediterraneo ellenistico: dall’isola dei guaritori, Kos, all’Egitto dove ferve la costruzione di Alessandria, fino a farlo perdere nell’Asia dei sogni (degli incubi?) di Alessandro il Grande che Aristotele, l’antico maestro, cerca di salvare dalle sue visioni.
E anche di visioni parla “L’anno della morte di Ricardo Reis”, di José Saramago, il libro che forse più di tutti (ma so che sto facendo dei torti…) è una presenza forte nella mia storia di lettrice. Pubblicato nel 1984, è ambientato fra il Capodanno del 1935 e il 1936: l’anno della morte di Ricardo Reis, appunto, l’anno dello scoppio della guerra civile in Spagna, mentre si addensano nubi nere anche sul resto dell’Europa, e del mondo. Questo romanzo, come poi molti di quelli che amo di più, parla proprio di questo: del confine sottile fra stati dell’esistenza, o fra fasi delle vite personali, o della stessa storia… Eteronimo di Fernando Pessoa, Ricardo Reis, che il suo creatore aveva immaginato emigrato in Brasile, da Saramago viene fatto tornare a Lisbona, città “del limite” come Istanbul, come Atene («Qui, dove il mare finisce e la terra comincia» inizia il libro), e gli viene “concessa” una vita, che implica relazioni, affetti, e la silenziosa testimonianza di eventi la cui portata verrà compresa solo in seguito, quando la follia distruttrice della guerra planetaria calerà sul mondo. Flusso di pensiero, dialogo ininterrotto fra Reis e Pessoa, il romanzo continuamente travalica limiti, anche quelli, soprattutto quelli, fra realtà e sogno, fra vita e morte, e Ricardo Reis si offre come testimone e protagonista di un anno dopo il quale il mondo non sarà mai più lo stesso.

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