Crac dell’Ac Cesena: la parte civile ha chiesto 50 milioni a tre imputati, per la difesa vanno tutti assolti

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  • 25 giugno 2025

La parte civile a processo (il curatore fallimentare Mauro Morelli) ha chiesto tramite il suo avvocato Antonio Materia di condannare gli imputati e di ricevere da tre di questi (l’ex dg della penultima gestione societaria Luca Mancini, e l’area tecnica al fallimento ossia il ds Rino Foschi e il responsabile del settore giovanile Luigi Piangerelli) un risarcimento di 50 milioni di euro. Imputati per i quali le difese chiedono invece un’assoluzione piena. Per non aver contribuito a nessun livello al dissesto economico che fece fallire il Cesena Calcio.

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Risarcimenti

È il sale dell’udienza di ieri per il crac dell’Ac Cesena, illustrato dalle parti al collegio del presidente Marco de Leva (giudici a latere Giorgia Sartoni e Federico Casalboni) dopo che nella precedente udienza il pm Francesca Rago aveva avanzato le richieste di pena.

L’avvocato di parte civile ha puntato il dito risarcitorio solo su tre imputati perché tutti gli altri coinvolti hanno o transato economicamente oppure hanno ancora in corso il procedimento civile sulla stessa vicenda. Sulla base del capo d’imputazione, la parte civile chiede a Luca Mancini 33 milioni di danni, ed a Rino Foschi e Luigi Piangerelli 16,9 milioni di euro i solido. Giustificando il tutto con il fatto che «una somma di illeciti non può dare un risultato lecito». La prova per la parte civile sufficiente a condannare. Il focus era mirato alle rateizzazioni dell’Iva che sommavano al fallimento 40 milioni di debito con l’erario. «Per iscriversi al campionato si guardava ad altro che non a pagare le tasse - ha spiegato l’avvocato Materia - Quindi l’Ac Cesena non finanziava in proprio la vita della società ma si iscriveva al campionato “sulle spalle” dello Stato. Se i soldi non versati per l’Iva restavano nelle casse del Cesena, come si può pensare che la rateizzazione non fosse una evasione? In aula lo ha detto anche l’ex presidente Lugaresi. Da quando era rientrato in società era emersa una situazione finanziaria più grave delle attese; e le operazioni per continuare ad iscriversi al campionato erano rateizzare le imposte e fare plusvalenze di baby atleti e firmando modulistiche in bianco. Tutti sapevano di questo sistema. In realtà con quei contratti tra Cesena e Chievo cambiavano solo le cifre dei bilanci. Non la situazione dei giocatori».

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«Dissesto successivo»

Di segno opposto le difese degli imputati che hanno iniziato a parlare con la posizione di Luca Mancini, ex direttore generale della gestione Igor Campedelli dei bianconeri (difeso dall’avvocato Tommaso Guerini): «Neppure il curatore parla di dissesto economico riferendosi all’epoca di Luca Mancini - ha detto il suo avvocato chiedendone l’assoluzione - L’imputazione parla di bancarotta per operazioni dolose. E l’indicazione data al dissesto economico è datata 2013 quando Mancini non aveva più alcun ruolo nella società. Dal 2005 quando le leggi in materia di crisi societarie sono evolute ad arrivare al fallimento del Cesena, Mancini ha gestito per parte sua in maniera onorevole quello che è un patrimonio della sua città. Il core business delle società sportive sono i risultati sul campo. L’Iva è un debito, che a differenza di altri è gestibile per legge. Per la continuità aziendale di una società di calcio la prima cosa è iscriversi al campionato. Poi ci sono il patrimonio dei giocatori, gli incassi e i diritti tv. Quando Mancini è stato amministratore non c’era il dissesto poi emerso. La società era in grado di iscriversi e il cuore delle accuse verte su un tempo in cui lui non era più nella società».

«Rateizzazioni lecite»

Le rateizzazioni dell’Iva sono state al centro anche delle conclusioni dell’avvocato Alessandro Melchionda in difesa di due rappresentanti dei collegi sindacali di Ac Cesena e della controllante Cesena & co, Stefano Bondi e Barbara Galassi: «Ho dato un’occhiata ad alcuni parametri delle società di calcio tra le più note. Perché quando chiedi il fallimento di una società sportiva ne distruggi l’intero patrimonio di giocatori ed incassi. Anche oggi la totalità delle società, pure tra le più note, hanno un debito con l’erario che non incide, come è stato fatto con l’Ac Cesena, per farne proseguire la continuità aziendale. L’Inter ha un debito con l’erario di 50 milioni su 316 di debiti totali, la Juve di 30 milioni su 612 totali di debito e il Milan 36 milioni di debiti fiscali su 636 totali. A oggi tutto il mondo del calcio è così e rateizzare l’Iva non è una operazione dolosa. Anzi è una pratica diffusissima nel calcio. Quasi un automatismo nel diritto tributario. Rateizzando le cartelle gli interessi che sono dovuti sono comunque meno di quanto si pagherebbe chiedendo un prestito alle banche. Un diligente amministratore di un’impresa sportiva sa che rateizzare l’Iva dovuta è un’operazione lecita». Sul fronte poi delle plusvalenze Cesena-Chievo, l’avvocato Melchionda è stato tranchant: «Incidono sul conto economico, non sull’indebitamento della società. Un indebitamento complessivo che tra il 2013 ed il 2018 è migliorato nel Cesena e non peggiorato. Non c’erano operazioni dolose e i sintomi aziendali in visione ai collegi sindacali non erano negativi. Nessuno deve essere condannato».

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“L’uomo solo” del Chievo

L’avvocato Daniele Ripamonti ha chiesto l’assoluzione per l’ex presidente del Chievo, Luca Campedelli «che nelle contestazioni della Procura di Forlì viene fatto passare come un dominus che controlla e vede qualsiasi cosa succeda alla squadra, mentre a Cesena vengono contestati reati a tutti i vari gradi di controllo e amministrativi. Non è ipotizzabile che reati teoricamente contestati a Verona lo vedano protagonista nel fallimento del Cesena. Campedelli non poteva avere conto delle difficoltà della società romagnola. La compravendita di atleti è la normalità di una società sportiva. Non un elemento di prova di una difficoltà aziendale. Tra l’altro l’imputazione parla di operazioni “inesistenti e fittizie” mentre, a tutti i livelli, è stato detto che tutte le operazioni iscritte a bilancio erano esistenti e reali. Compravendite dove il valore dei giocatori non è predeterminato ma viene lasciato al libero mercato. Come ha ben spiegato ai giudici anche il vertice della Figc, Gabriele Gravina».

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Fuori “dai giochi”

Le richieste di assoluzione ieri sono state concluse dall’avvocato di Luigi Piangerelli: Silvia Castellari. Che ha guardato la questione “a specchio” rispetto al lato veronese: «Piangerelli non aveva alcun rapporto diretto col Chievo. Dell’Ac Cesena non era un amministratore; non aveva deleghe gestionali e non capiamo come possa aver partecipato a una bancarotta. Aveva competenze solo dal lato tecnico sportivo. Non metteva mai neppure piede nella sede del Cesena. Piangerelli non sa nulla di bilanci. Se si chiede la sua condanna , come ha fatto l’accusa, perché la Procura non ha chiesto la stessa cosa per il responsabile del settore giovanile del Chievo? Piangerelli fin dal primo interrogatorio ha sempre detto le stesse cose: aveva a cuore l’interesse dei suoi giovani atleti. Quelli per i quali il Chievo (società di A) poteva essere un’opportunità. Poi Piangerelli era un dipendente, e se non avesse fatto quanto gli veniva ordinato dai vertici societari sarebbe stato cacciato subito. Ma non aveva certo deleghe o conoscenze economico - tributarie per incidere su bilanci e conti o partecipare al falso in bilancio che gli si contesta».

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