Gli ucraini a Miramare nel campo di concentramento

Con l’arrivo della primavera del ’47 prende il via la totale smobilitazione del campo di concentramento di Miramare (si veda il precedente articolo di questa rubrica uscito martedì 22 febbraio 2022). Il numero dei prigionieri di guerra ammassati in questo enclave dalla fine del conflitto è enorme: il Giornale dell’Emilia dell’8 ottobre 1946 parla addirittura di ottantamila. Ogni giorno lunghe colonne di autocarri carichi di militari detenuti lasciano il lager per varie destinazioni; prima del definitivo ritorno a casa, questi sventurati dovranno stazionare ancora in luoghi di segregazione tedeschi, inglesi e sovietici. Un vero e proprio calvario.

Non tutti gli internati sono contenti di lasciare Miramare. Gli ucraini, per esempio, dopo aver collaborato con i tedeschi – convinti di combattere per l’indipendenza del proprio Paese contro la dittatura comunista – hanno una paura tremenda del rientro coatto in Unione Sovietica, sicuri di fare una brutta fine. Una commissione russa per ben due volte in visita d’ispezione alla “tendopoli”, nel 1945 e nel 1946, riesce a convincerne solo un’esigua minoranza (circa 1.300).

Sul rimpatrio degli ucraini corrono strane voci. Alcuni giornali nazionali affermano che essi preferirebbero morire, piuttosto che ritornare a casa. Non c’è «ombra di tragedia», assicura al contrario il Giornale dell’Emilia l’8 giugno 1947 intervenendo sulla questione e rispondendo a quanti si ostinano a raccontare di «repressioni sanguinose, rivolte, harakiri collettivi». Di certo si sa che gli ucraini, durante la loro detenzione riminese, sono stati più volte protagonisti di vicende a sfondo politico. Fatti «di poco conto», minimizzano i cronisti per calmare le acque, ma comunque indicativi della loro ostilità al regime sovietico. Tra questi episodi va segnalato il clamoroso blitz nella sede del Partito comunista di Miramare. La dinamica di questa azione è talmente curiosa e stravagante da sorprendere persino i reporter che la illustrano nei loro fogli con un pizzico di ironia: un gruppo di ucraini, uscito di notte dall’accampamento – le passeggiate notturne al di là dei fili spinati sono frequenti –, penetra nei locali della vicina cellula marxista e porta via i ritratti di Stalin e Togliatti. L’impresa, recepita come una provocazione fascista, mette in subbuglio per alcuni giorni l’ambiente comunista riminese. Le acque si calmano solo grazie all’intervento di alcuni ufficiali britannici, i quali – dopo «accurate indagini» – riconsegnano il maltolto e porgono le scuse sostenendo che l’«offesa» debba ritenersi una «goliardata». Nulla di più. Scherzo o atto politico il gesto, tuttavia, fa scalpore e lascia l’amaro in bocca a tanti compagni nostrani.

Ultimi ad abbandonare il campo di prigionia, gli ucraini se ne vanno da Miramare e dall’Italia in giugno (Cfr. L’Adriatico dal 23 maggio al 5 settembre 1947). Sulla loro meta si hanno scarse notizie; si sa per certo che un consistente gruppo fu trasferito in Germania nel lager di Ulm-Donau. Alcune comunità di questi esuli trovarono in seguito rifugio nell’America del Nord, in Canadà e in Australia. Negli Usa, intorno agli anni Sessanta, era operoso un Comitato di solidarietà ucraina adibito a coordinare i collegamenti con tutti quei profughi che per varie ragioni non erano tornati in Unione Sovietica.

Interessanti testimonianze sulla quotidianità degli ucraini nell’enclave di Miramare le troviamo nell’opuscolo Ukrainskyj Filatelist. Francobolli-marche ucraini nel campo militare alleato di prigionia. Rimini 1946-1947, scritto da Severino Massari nell’agosto del 1973 per le edizioni de “La sfida”. Gli ucraini asserisce Massari, che per motivi collezionistici ebbe modo di conoscerli molto da vicino, si distinguevano per elevata sensibilità culturale e artistica; tra loro c’erano diplomati, laureati, ingegneri, medici, professori e sacerdoti. Molto apprezzati erano i loro lavori artigianali: «portasigarette, posacenere, portafiammiferi, portacarte, righe, squadre, portapenne, calamai, tamponi per carta assorbente»: tutti oggetti in legno guarniti di «perle colorate».

Erano molto religiosi, sostiene Massari: nel campo di concentramento avevano costruito «una chiesetta sul modello e con le caratteristiche di quelle ucraine». Legatissimi alle tradizioni culturali e storiche della loro madrepatria, avevano dato vita a «un circolo filatelico forte di 134 soci, molto attivo e con precise finalità: riunirsi sotto l’emblema della filatelia per tenere viva la fiamma e l’amore verso la propria terra. Tutti i francobolli da essi disegnati, infatti, richiamano oltre alle vedute del campo di prigionia anche le date storiche della Patria lontana».

Nel giugno del 1947 – annota Massari –, prima di partire per ignote destinazioni, gli ucraini sentirono l’esigenza di redigere un saggio di commiato, intitolato Saluto all’Italia, per attestare con amorevoli parole «l’umana solidarietà del popolo italiano». «Per tutti noi che lasciamo l’Italia come prigionieri di guerra – riferiscono gli ucraini –, questo Paese, vogliamo o no, è diventato una parte della nostra vita che nessuno può toglierci mai più … L’Italia ci ha avuto con sé, noi che venimmo soldati e partimmo prigionieri. Dio ci ha dato la grazia di essere in questo Paese quando la vecchia Europa periva e affondava nel sangue e nella polvere. Noi vediamo l’Italia come il sacro terreno in cui molte migliaia di nostri compagni dormono il sonno eterno e già per questo il suo ricordo deve esserci caro… L’Italia è anche, e sopra tutto, il Paese nel quale venne loro il dono di una ritrovata fede. A lei, all’Italia, vada il nostro saluto e il nostro grazie».

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