Gli anni ruggenti del Goliardo e le caricature di Ardo

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L’argomento è scherzoso e lo introduciamo con leggerezza. Nel 1922, mentre i “grandi” marciano su Roma, i “piccoli” – una combriccola di amici «sempre al verde» ma capaci di ridere dei propri guai – fondano un giornale: Il Goliardo. Il periodico, che in seguito si presenterà come «Organo quindicinale dell’Associazione studentesca riminese», è una miscela esplosiva di umorismo: va a ruba tra i giovani, ma è letto anche dagli adulti. Eppure, nonostante il clamore che suscita, fatica a sostenersi, tant’è che la periodicità è sempre irregolare. «Esce quando gli tira… e costa mezza lira», troviamo scritto nella testata. Lo slogan è spiritoso, ma è anche veritiero: corrisponde in pieno alle difficoltà economiche che incontra il “fogliaccio” (termine usato da alcuni altezzosi “intellettuali”). Difficoltà ben evidenziate nel trafiletto di apertura del giornale il 25 novembre 1923: «Finalmente dopo aver sudate quattro camicie o poco meno per racimolare quel po’ d’inserzioni bastevoli per mettere al pareggio il bilancio di questo numero, l’abbiamo dato alla stampa». Tra i promotori dell’iniziativa editoriale ci sono due fratelli: Guido e Giulio Cumo. Il primo riesce con facilità a mettere in versi raccontini galanti e battutine briose; il secondo ha attitudine per il disegno: con pochi tratti di matita coglie le somiglianze e sa come trasformarle in caricatura. I due decidono di assumere degli pseudonimi: Guido firmerà le sue “rime baciate” con il nome di Golia; Giulio, le sue vignette, con quello di Ardo. Uniti in questa ben assortita accoppiata rappresentano l’anima scanzonata del Goliardo. L’accordo, tuttavia, non sarà rispettato da Guido: il suo pseudonimo, prima sarà abbreviato in Lia, poi – complice una lontana parentela con i conti Soleri-Martinelli di Francolino – in Contessina Lia. Giulio, al contrario, terrà fede al patto e continuerà ad essere Ardo fino all’inizio degli anni Trenta allorché, inserito nel cenacolo degli artisti riminesi, inizierà a firmare gli schizzi e soprattutto le opere a pastello e a china col proprio cognome. Il successo del giornale è in massima parte dovuto ad Ardo: sono i suoi ghiribizzi, più eloquenti degli articoli, ad attirare “il popolo” che gironzola dall’Arco al Ponte. Chi lo sfoglia per curiosità, chi per riderci sopra e chi infine per il timore di vedersi “maltrattato” dalla sua penna. Quando capita l’imprevisto per qualche settimana si diventa lo zimbello degli amici. Incubo delle sartine e degli studenti, Giulio Cumo (1906-1992) è l’enfant prodige dei vignettisti. A detta degli amici del Goliardo sembra che dopo i primi vagiti abbia cominciato a comunicare le proprie emozioni con la matita, ritardando ad arte la parola. A scuola la sua esuberante fantasia e le sue spiccate attitudini grafiche stupiscono gli insegnanti, che tentano di orientarlo verso gli studi artistici; un indirizzo, questo, che il padre, ragioniere, ritiene «poco concreto» e ne contrasta la scelta. E così il figlio, ubbidiente, proseguirà gli studi «seri» fino al raggiungimento del diploma di geometra. Nei ritagli di tempo, tuttavia, continuerà a schizzare e a corredare di umorismo le pagine dei giornali, non solo studenteschi. Torniamo al “fogliaccio”. Basta – dicono in coro i redattori – con la malinconia, con il pensiero degli studi, con la preoccupazione degli esami: «Gaudemus igitur juvenes dum sumus!». La vivace brigata del Goliardo brinda alla vita, alla gioventù allegra e scanzonata e soprattutto «alle bambine assai carine, alle commesse, alle cameriere, alle sartine e alle modistine». Una rivoluzione vera e propria … ma goliardica, che non ha nulla a che fare con la svolta politica in atto nel Paese. «Esce quando gli tira», ma la sua linea editoriale è sempre chiara e lineare. È autarchico ante litteram: bersaglia i «biondi tedeschi dalla pancia tonda» e le «alte e piallate miss dai tacchi bassi»; è campanilista: «alle bagnanti forestiere» preferisce «le sartine e le servette caserecce»; è intrigante: spia e riferisce i capricci e gli «amorazzi» di molte avvenenti ragazze dalla «puzza sotto il naso»; mette in allarme i pretendenti, gli spasimanti e i mariti gelosi (Il Goliardo, 31 maggio e 22 novembre 1924). È anche polemico e non rifiuta “pericolose” schermaglie. «Il Goliardo è un giornale che non entra nelle famiglie per bene», scrive con alterigia La prora – autorevole settimanale fascista riminese –; «da ciò si deduce che in Rimini non vi sono famiglie per bene», risponde con arguzia il “fogliaccio” il 23 dicembre 1924, forte del consenso che ottiene dal «popolo che si aggira per il corso». Sotto certi aspetti è pure dissacrante. Dice: «che importa a un disgraziato del XX secolo se c’è il tal ministro invece del tal altro? Chi se ne frega se la Germania riacquista il posto perduto nel mondo?». Ciò che conta veramente è che «nelle nostre pagine» ci sia «la penna dell’immortale Ardo» (Il Goliardo, 22 novembre 1924). E «l’immortale», su quel periodico scanzonato e irriverente, c’è sempre e con lui i suoi “capricci”, che scandalizzano «le zitellone grinze» e «la gente seria». L’umorismo di Ardo prende di mira tutti e non ha censure. I suoi bersagli preferiti sono le signorine: la Tosca di Borgo Marina; la Nella e la Zaira di via Lavatoio; la “diva” Isotta del borgo San Giuliano e la Fernanda di via Dante, che «tott i la vò e nissun i la dmanda» (Il Goliardo, 22 novembre 1924). Ad incoraggiare Ardo a sfornare in continuazione spassose caricature è la cricca del Goliardo: per le «belle di Rimini», dicono maliziosamente, «è tutta pubblicità». Ma è una pubblicità di cui molte fanciulle da marito farebbero a meno: «vendere» – cioè sposare – una ragazza «maltrattata» da Ardo, è una corsa tutta in salita.

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