Gli 80 anni dell'editore Mario Guaraldi: una vita per la cultura

Una risata accogliente, una vena di disincanto, parole di gratitudine e a tratti molto schiette accompagnano questa conversazione con l’editore Mario Guaraldi, il giorno dopo il suo ottantesimo compleanno. La memoria è ripercorsa chiedendo qualche conferma alla moglie Maria, sempre accanto, compagna di vita, di lavoro e di «cose fantastiche».

Come ha trascorso il giorno del suo compleanno?

«Circondato da amici e parenti. Ho sempre avuto in antipatia i compleanni. Festeggiare un anno in meno da vivere mi era sempre sembrato sciocco e incongruo, ho rotto persino con alcuni amici per questo. Ma questa volta ho dovuto cedere, perché ho capito dove sbagliavo: sono feste di ringraziamento per l’anno in più che ci è stato concesso di vivere. E averne potuti vivere ben 80, di anni, merita davvero gratitudine. Per questo ho chiesto ai miei famigliari il regalo di celebrarlo non a casa ma a Montetauro, la famiglia monastica a cui sento di appartenere proprio come a una famiglia soprannaturale. Per di più, essendo domenica, abbiamo potuto concludere la festa con una messa: di ringraziamento, appunto».

Mario Guaraldi editore, ma c’è chi ha detto agitatore culturale. Lei come si definisce?

«Io sono solo un editore a tutto campo, in senso esteso e vocazionale. Pubblico libri come spettacoli e incontri e convegni e festival, meri strumenti di cultura».

Quando ha capito che i libri avrebbero fatto parte della sua vita, come mestiere?

«Eravamo a Rimini un gruppo di amici e ci riunivamo tutti al Bar Turismo che era il bar dei giovani intellettuali in piazza Tre Martiri, accanto alla Cappella di Sant’Antonio. Avevamo tante belle speranze e ognuno aveva già la propria etichetta: tra tutti io ero l’editore. Il mio amico Piero Meldini aveva procurato la commessa di un libro sulla Resistenza e nel libro era contenuto un mio racconto, figuravo anche come autore. Quando vidi il mio raccontino mi vergognai, rimasi deluso dalla mia qualità di scrittura. Così decisi di fare l’editore, di passare dall’altra parte».

Un’editoria come bene comune è possibile?

«Sì, è possibile. Quando il libro smetterà di essere una merce».

Una merce o solo una merce?

«Una merce. Il libro è in realtà il suo contenuto, diventa libro quando assume una forma che per definizione è merceologica, questa forma lo condanna perché sta sul mercato con le regole che lo condizionano. Per assurdo si potrebbe dire che il libro è una cosa che non è stata ancora inventata. Ho la visione del sodalizio editore-scrittore come una relazione mistica: entrambi partecipano alla creazione dell’unico atto creativo del pensiero e nel renderlo pubblico. Questo tipo di editoria capace di esprimere questo tipo di sodalizio non è ancora nata, è un compito che affido a future generazioni».

Cultura, in latino significa “coltivazione della terra”, e deriva dal verbo còlere, “coltivare”. Per lei di cosa si compone una “buona cultura”?

«Questa domanda mi piace molto. Io amo coltivare la terra. È la cosa più vicina al mestiere di editore: si dissoda il terreno, si semina, si cura la pianticella che cresce. Poi si aspetta il raccolto, anche se noi non ci saremo più. Il libro è uno strumento, come la vanga».

Alla luce dei suoi 80 anni, qual è oggi la sua visione non solo della vita ma anche dello scenario editoriale italiano?

«Rispetto alle battaglie fatte, e alle ferite riportate, si direbbe una catastrofe. Ma forse non è proprio così».

Si sente di lasciare un messaggio ai giovani lettori e alle giovani lettrici che desiderano formarsi intellettualmente?

«Sì: leggete Filone Alessandrino. Filone? Chi era costui? Ecco, questo è il punto!».

Nel 2013 in “Radici di carta, frutti digitali” lei ha raccontato del digitale come l’occasione per l’editoria per rispettare la vocazione originaria, quella della diffusione e della cura del contenuto. Un’aspettativa soddisfatta o delusa?

«Certamente delusa. Dai fatti, non dal significato che aveva, e continua ad avere, quella aspettativa. Quando un buon libro ha trovato anche solo un lettore senza far fallire il suo editore, ha centrato il suo obiettivo».

Come descrive la sua relazione con la città di Rimini?

«Complessa, contraddittoria come tutti gli amori. Come ha avuto Fellini per Rimini. Per questo non credo sarebbe contento di questa sua identità imposta a una città che forse ama il suo brand ma non sono sicuro conosca e ami il suo cinema».

Da don Benzia Firenze, Genovae infine Rimini

La vita di Mario Guaraldi è raccontata in un libro inedito dal titolo Bisonti di carta. «L’ho scritto per mettere ordine - racconta l’autore - e comunque ho saltato molta roba. È interessante il meccanismo selettivo che opera la memoria. I tempi e le modalità di pubblicazione sono ancora da decidere anche se l’ipotesi principale è quello di farlo uscire a puntate come un feuilleton».

L’autore ripercorre la sua vita individuando quattro tappe principali: «La prima racconta il mio legame con don Oreste Benzi, ero il suo discepolo prediletto. La seconda è la fase di Firenze, quella del 1968. Nella mia memoria gli anni fiorentini sono infinitamente lunghi, invece sono stati solo otto, in cui ho pubblicato 800 libri che hanno marcato quella congiunzione particolare della politica e della cultura italiana di quel periodo, di una qualità intellettuale oggi sconosciuta».

«La terza tappa – continua – ha segnato il mio allontanamento da Firenze. Cedetti la Guaraldi a degli sconosciuti e con mia moglie Maria andammo a Genova. Lì feci per la prima volta un lavoro da dipendente, per la Miralanza. Un posto trovato grazie a un grande amico con un cuore straordinario, Vinicio Bandini, conosciuto a Firenze, direttore della Sansoni. A Genova ho vissuto un esilio che ha innescato la mia malinconia dovuta all’inattività editoriale. Mia moglie si occupava di spettacolo e così abbiamo cominciato a organizzare spettacoli come fossero stati qualcosa di editabile. Abbiamo fatto cose fantastiche».

E continua: «Alla prima buona occasione siamo tornati a Rimini dove è segnata la quarta tappa: qui don Giacomo Ugolini chiese a me a mia moglie di riempire di contenuti il Meeting, sul fronte della cultura e dello spettacolo. Poi c’è stato il momento in cui Davide Rondoni ha avuto l’ambizione di diventare editore proponendomi di riattivare il marchio Guaraldi che avevo quasi dimenticato: fu in quel momento che pubblicai Con questa tonaca lisa, siamo giunti agli anni Novanta, la biografia di don Oreste Benzi. Mi ero assentato dal mondo editoriale perché l’esperienza fiorentina mi aveva lasciato addosso una specie di paura, ho rifatto nei primi anni tanti errori come un adolescente e poi ho cominciato a guardare al digitale con interesse, ciò mi ha portato a lavorare con l’ebook, con l’editoria digitale. Siamo riusciti a prefigurare l’editoria del futuro». D.C.

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