Quante suggestioni nell’utopia americana di David Byrne

Rimini

RAVENNA. L’Africa percussiva e la new wave americana, il melting pot newyorkese e la coralità del musical, la danza contemporanea e il rock sofisticato. Quante suggestioni nell’utopia americana di David Byrne. Al Pala De André di Ravenna, una delle selezionate tappe italiane di “American utopia tour”, dopo gli Arcimboldi a Milano e prima di “Umbria jazz” e piazza Unità d’Italia a Trieste ­- per il Ravenna festival “americano” di quest’anno - il palco è vuoto in tutta la sua profondità. In terra tappeti da danza, sui tre lati quinte di catenelle metalliche pronte a colorarsi con le luci.

Loro, Byrne e gli 11 musicisti, entrano a piedi scalzi, di grigio vestiti, e si va, 90 minuti di gioia per gli occhi e per le orecchie, il pubblico freme e non vede l’ora di accogliere l’invito del guru per strabordare sotto al palco e loro là, strabuzzanti, a godersi la festa che la città gli tributa (con due uscite sul finale).

David Byrne è oggi più che mai. È giovanissimo, attualissimo, sperimentatore accanito e colto, ma popolare, empatico nella sua algida fisicità, lunare danzatore, surreale capobanda, a fuoco in ogni momento, intenso su ogni nota. Uno spettacolo tribale condito di suoni metallici e balli robotici, in cui convivono la world music, il teatro danza e l’arte visiva, l'elettronica e il Sudamerica, la politica e i sentimenti, l’arguzia d’intelletto e la passione sfrenata.

Ogni secondo è da gustare. Non è certo il revival di un mito degli anni Ottanta, che i vecchi pezzi dei Talking Heads, pur ben presenti e vivi (“Blind”, 1988, “Burning down the house”, 1983, con il palco che si incendia di rosso, "Once in a lifetime" del 1980 come "Born under punches"...; peccato per l'esclusa "Psycho killer", singolo di debutto della band, del 1977) sono appena il prezzemolo di questa gustosa e variegata cena.

L’ultimo album, uscito a sorpresa lo scorso marzo dopo 14 anni dal precedente e in cui collabora ancora Brian Eno, è insieme una dichiarazione d'amore e una irridente critica agli adottivi Stati Uniti d'America (Byrne, classe 1952, è di origine scozzese). Si comincia con "Here", solo un tavolo e un cervello («Here there is something we call hallucination» canta) poi salta indietro a "Lazy", che compose con gli X-Press 2, a quella "I should watch tv" scritta con St. Vincent, fino a "Toe Jam", che lo vide collaborare con Fatboy Slim e Dizzee Rascal, a dimostrare la poliedricità di un artista sempre ferocemente curioso. Quella "This must be the place" con cui ha vinto l'Oscar per il film di Sorrentino arriva al cuore del concerto, e degli spettatori. 

Dall'ultimo album estrae ancora "Dog's mind", "Everybody's coming to my house", "Doing the right thing", "I dance like this", "Bullet", "Every day is a miracle"... e ogni frase è compiuta, ogni lirica un manifesto, nitido, specchiato: «We dance like this, because it feels so damn good. If we could dance better, well, you know that we would».

È una danza, un serpente, un rito, i musicisti sono attori, mimi, cantanti, ballerini, un gruppo straordinario di performer con i loro strumenti a tracolla, compresa la batteria che si scompone e si moltiplica, per un tappeto sonoro che rimbomba nella pancia e ti fa alzare e ballare. Da citare uno per uno: Chris Giarmo e Tendayi Kuumba fantastici coristi-danzatori, Karl Mansfield tastiera, Angie Swan chitarra (partecipa anche al progetto ravennate delle "100 chitarre"), Bobby Wooten basso, Mauro Refosco tamborim tree, shaker, Davi Viera bongos, Gustavo Di Dalva conga, Tim Keiper campane, metallofoni, Aaron Johnston e Daniel Freedman tamburi e hi-hat. Lo stesso Byrne imbraccia quando può le sue corde. E ci tiene a sottolineare: «È tutto dal vivo, non ci sono suoni campionati». Quasi incredibile nella sua perfezione.

Una baraonda impeccabile e organizzata: una scelta coreografica tanto semplice quanto efficace, a cui bastano le luci e le ombre per creare mondi. È molto più di un concerto, e le date esaurite in tutto il mondo lo dimostrano. Byrne ringrazia, parla poco, ma quando lo fa non è a caso: «Andate sempre a votare, è importante, anzi se potete votate due volte!».

Doppio bis finale ("Dancing together" e "The great curve" alla prima uscita) e ciliegina con "Hell you Talmbout" - contrazione della frase «what the hell are you talking about?», di cosa diavolo stai parlando? - cover della canzone di protesta di Janelle Monáe  in cui vengono elencati i nomi degli afroamericani vittime della polizia e dell'odio razziale. Non c'è bisogno di altro.

Vera Bessone (Foto Zani-Casadio)

Ravenna, Pala De André 19 luglio 2018

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