I Motus a New York: «Questo continuo andare è il nostro essere»

Rimini

RIMINI. Dopo il successo internazionale di Mdlsx, con il nuovo spettacolo Panorama – che ha debuttato ieri sera al teatro LaMama di New York per il festival Under the radar – lo sguardo dei Motus si allarga sempre più al mondo.


La nuova produzione parte dagli Stati Uniti per arrivare in Belgio e poi a Milano. La sua realizzazione vi ha portato fino a Seul, in Corea. Difficile definirvi ancora «il gruppo di Rimini». Ma che cosa portate della vostra terra in questa dimensione internazionale?
«Portiamo un modo di fare teatro che è lontanissimo dalle abitudini che hanno qui, a partire dal tempo, dai ritmi e dallo spazio del lavoro – risponde Daniela Nicolò, fondatrice della compagnia insieme a Enrico Casagrande –. A New York non ci sono assolutamente spazi pubblici, le sale per provare sono sempre in affitto a ore. Una giovane compagnia che voglia cominciare a fare degli esperimenti, che costerebbero anche solo poche centinaia di dollari, deve comunque elemosinarli alle foundations. Come è noto il sistema è storicamente fondato prevalentemente sui finanziamenti privati, ma ora la crisi è esplosa con violenza. Non è quasi più possibile avere tempo e spazio per ragionare attorno al teatro, e questo si vede. A parte pochi artisti famosi in tutto il mondo, come Richard Maxwell, spesso ospitati in Europa, non stanno nascendo compagnie di rilievo. Molti one man show, molte messe in scena di testi, tanto storytelling... Si prova per tre settimane in una sala affittata, si fa uno spettacolo per cinque giorni e poi fine, avanti un altro progetto. Non c’è la possibilità di far maturare un lavoro. Il principio della residenza, che da noi è diventato abbastanza riconosciuto e condiviso, a New York non esiste. Abbiamo mostrato agli attori alcune immagini dell’Arboreto di Mondaino, discutendo di quanto sia importante per noi “perdere del tempo”, lavorare a lungo su uno spettacolo. Erano increduli».

Avete incontrato resistenze?
«Sì, la nostra concezione di drammaturgia all’inizio ha incontrato non poche resistenze. L’aspettativa era quella di un testo, un microfono e una voce che racconta. La nostra produzione è decisamente sovradimensionata rispetto alle loro abitudini, anche sul piano tecnico. Per esempio nel loro piano di produzione la scena sarebbe dovuta arrivare alla fine del lavoro. Noi ovviamente abbiamo bisogno immediatamente di una sala in cui trasformare le parole in immagini, abbiamo preteso un dispositivo scenico con cui gli attori potessero rapportarsi da subito; così, lentamente, abbiamo conquistato una sala prove sempre più grande! Anche sul piano della recitazione abbiamo fatto una bella fatica per tirarli fuori dallo storytelling e dal movimento libero del corpo (che secondo loro fa tanto teatro sperimentale!)».

E come avete fatto?
«La chiave è stata il cinema. La loro competenza come attori cinematografici ci ha permesso di attingere a qualità attoriali eccezionali che nel teatro, paradossalmente, non avrebbero impiegato. La reazione comunque è molto positiva, gli attori sono curiosi e generosi. Stanno facendo cose che non ci saremmo mai aspettati, mettendo da parte le proprie abitudini artistiche per dedicarsi a un lavoro del tutto nuovo sulla “presenza”. È la prima volta, dicono, che come attori cercano dentro se stessi cose di sé a cui non avevano mai pensato».

Il vostro percorso artistico si è gradualmente spostato da una spiccata propensione estetica dei primi anni Novanta a una sempre più netta visione etica del fare teatro. Dopo avere esplorato e rinnegato i confini dell’identità sessuale in “Mdlsx”, insieme ad autori e pensatori come la filosofa Judith Butler o lo scrittore premio Pulitzer Jeffrey Eugenides, in “Panorama” vi ispirate al pensiero femminista di Rosi Braidotti e, con lei, superate il concetto di nazione e parlate di «identità fluida e nomade» per i popoli del mondo. C’è dunque un filo rosso che lega “Mdlsx” a “Panorama”?
«In un certo senso Panorama si inscrive idealmente nel percorso inaugurato da Mdlsx, spostando il fuoco dalle tensioni sui limiti che viviamo all’interno del nostro corpo ai confini che frenano i movimenti delle popolazioni “interstiziali”, in transito, in cerca di nuove dimore, sia perché costrette da tragedie climatiche o conflitti armati, o semplicemente sospinte dal desiderio di lanciarsi nell’ignoto di una nuova esperienza lavorativo-esistenziale».

«L’appartenenza aperta alla molteplicità»
«La fluidità – continua la drammaturga dei Motus – è la libertà di poter transitare da un luogo, una condizione, una forma, uno stato all’altro, e anche quella di restare nell’indefinitezza, con una identità nomade, appunto. È “l’appartenenza aperta alla molteplicità” di cui scrive la teorica femminista Rosi Braidotti. Perché non è vero che nasciamo in un modo e non cambiamo più. Siamo a New York, nella terra del queer, dell’essere storti, qui sempre più persone rifiutano i pronomi personali him o her. Anche l’identità di genere non è statica, può mutare nel corso dell’esistenza, e per noi questa è una bellissima metafora rispetto a un’idea più vasta di umanità in trasformazione continua. Mdlsx è lo spettacolo in cui si è evidentemente concentrata al massimo una tensione che ci appartiene da sempre, il desiderio di superamento delle barriere, degli incasellamenti, e su questo percorso stiamo continuando ora. E questa tensione verso i mutamenti è leggibile naturalmente anche nelle trasformazioni del nostro segno artistico».

Il tema della diaspora e dei migranti vi sta a particolarmente a cuore: ve ne eravate occupati anche nel progetto “Animale politico” e nello spettacolo “Nella tempesta”. Dopo avere abbattuto parecchi confini, reali, artistici, politici, vi sentite un po’ migranti e senza patria anche voi? E dopo avere lavorato così tanto in giro per il mondo, i confini italiani vi stanno stretti?
«In questo periodo, più che mai, siamo senza radice. Eppure sentiamo che questa dimensione ci appartiene, ci sta trasformando in un modo che ci piace. Si dice che il teatro sia uno specchio in cui riconosci te stesso e la tua comunità di appartenenza. L’assenza di confini che stiamo sperimentando ci porta a riconoscerci in una comunità dispersa, diradata. Ma nel nostro continuo movimento incontriamo compagni in cui ritroviamo o scopriamo qualcosa che ci somiglia. A volte questa condizione è spaventosa, perché amplifica la percezione di solitudine. C’è stato un tempo, nei primi anni Duemila, in cui, nel tentativo di “ancorarci” a un luogo, avevamo affittato una sala prove al Gros di Rimini, ma i costi erano troppo alti per noi senza un supporto del Comune. Poi abbiamo provato varie altre volte con questa città ad aprire un dialogo rispetto a un luogo “nostro” da poter gestire… non ultimo il progetto Go Deep all’Astoria… Ma niente da fare, è sempre stato difficile trovare un accordo con il Comune, cosa che in parte è dipesa anche da noi. Ci sono artisti che investono tutta la vita lavorando con una comunità in un certo luogo, che riescono a dialogare con la burocrazia e i tempi delle amministrazioni locali, ma noi abbiamo capito che non ne siamo capaci, non ci è possibile, e abbiamo di nuovo lasciato tutto. Dal 2005 i nostri maggiori produttori sono Francia, Germania, Belgio e ora anche Spagna. Negli anni abbiamo avuto un dialogo con Pietro Valenti di Ert, anche per ragioni geografiche, che ci ha sempre affiancato in tanti progetti, non ultimo Hello stranger. Per Panorama, Ert è entrato nella rosa dei produttori italiani, insieme al Teatro dell’Arte di Milano, che ci ha ospitato per tanti anni. Ma se dobbiamo riconoscere un’appartenenza, la nostra vera casa è il Festival di Santarcangelo, sia perché siamo artisti associati e collaboriamo su diversi fronti, e sia perché – in quanto festival – è un’altra entità in continua trasformazione, che ci ha sempre accolto, dando spazio ai nostri spettacoli come alle sperimentazioni più estreme. E il grande seguito di pubblico che abbiamo qui è la dimostrazione di quanto la continuità sia importante».

Dal personale all’universale: come “Mdlsx”, “Panorama” parte da un dato reale, concreto, le storie vere degli attori della Great Jones Repertory Company di New York, una comunità interetnica che va dalla Corea alla Repubblica Domenicana, dalla Cina al Vietnam, alla Turchia… Avete composto una drammaturgia in cui le esistenze dei performer e le loro difficoltà per ottenere la green card vanno a formare una biografia collettiva e dunque diventano paradigma. E lo avete fatto proprio nel momento in cui veniva eletto alla presidenza degli Stati Uniti un presidente come Donald Trump, il cui primo, simbolico proclama (il muro con il Messico) è stato proprio un netto segnale di chiusura dei confini. Come pensate che verrà accolto “Panorama” negli Usa? Avete ricevuto pressioni?
«Il progetto con LaMama era già avviato e avevamo pensato a questo tema prima dell’elezione di Trump – del resto non è che prima queste tensioni razziali e imperialiste non esistessero – ma è chiaro che dopo la sua elezione tutto si è trasformato e il volto ufficiale degli Usa è diventato mostruoso, ogni giorno di più. Gli attori con cui lavoriamo sono davvero imbarazzati al riguardo, si vergognano, un po’ come ci vergognavamo noi di Berlusconi, perché anche se nessuno di loro l’ha votato, la sua vittoria è il riflesso delle abnormi contraddizioni del Paese. In quanto all’accoglienza, poi, l’altra sera c’è stata l’anteprima di Panorama con il pubblico americano, o meglio newyorkese, e la risposta è stata bellissima! In molti (in lacrime) ci hanno detto che abbiamo tracciato un quadro impietoso ma vero del Paese, e che solo come europei potevamo fare… Ora direi che la scommessa è vedere piuttosto come viene letto questo lavoro in Europa, perché è fortemente radicato qui, ma penso sia comunque uno spaccato interessante e inusuale del Paese, del tutto fuori dai luoghi comuni dell’American dream».

Quale ritenete che sia – o che dovrebbe essere – il ruolo del teatro nella scena politica? In altre parole, vi sentite attori politici?
«Per questioni anagrafiche siamo passati attraverso una serie di lotte e occupazioni, abbiamo lavorato con Judith Malina… L’impulso di pensare che uno spettacolo/il teatro possa accendere un movimento, attivare delle energie, spingere in avanti, è fondante. Ci abbiamo sempre provato, in tutti i modi, e qualche volta anche con spettacoli al limite del retorico. Gli Stati Uniti, in questo momento, mettono a durissima prova un posizionamento di questo segno. Il “potere del potere” è sconfinato (come dice l’attrice turca in Panorama), e qui lo respiri per strada. Il potere aggregante non è quello di altri momenti storici, ma le lotte e le ribellioni ci sono, eppure incidono veramente in minima parte sulle enormi scelte politiche che vengono fatte. Nel frattempo, però, avvengono cose straordinarie. Quando abbiamo portato Mdlsx a Wroclaw, in Polonia, è successa una cosa mai capitata nel resto del mondo. In una terra in cui il cattolicesimo è profondamente radicato, alla fine dello spettacolo il pubblico è sceso dalla tribuna per andare ad abbracciare Silvia Calderoni. Con questo nuovo lavoro trattiamo un tema fortemente politico, specialmente in questa fase storica in cui alla guida del paese c’è un presidente come Trump. La nostra attrice vietnamita è scappata da Saigon perché c’era la guerra, ed è arrivata New York come rifugiata. Perry invece lavorava in Arizona nel ristorante di famiglia, e ha deciso di partire per amor dell’arte, e si è iscritto alla scuola di Marta Graham ottenendo un grant. Si decide di andare via anche per il desiderio di conoscere altro, di sperimentarsi in un’altra realtà. Deve essere legittimo che un africano possa vivere un’esperienza altrove, e anche tornare indietro, come era legittimo per noi andare a Londra o Berlino da ragazzi. Questa possibilità negata ad alcuni popoli è inaccettabile ed è un tema che dovrebbe essere centrale in tutte le discussioni politiche. Noi ci proviamo e riproviamo ogni volta con forme e linguaggi diversi, ma il nostro teatro non può prescindere da queste urgenze etiche. L’arte è l’unica arma che abbiamo per incidere nel reale, e può essere eminentemente politica».

Con “Panorama” sarete impegnati in una tournée internazionale. Quale sarà il passo successivo? Avete già trovato il prossimo confine da attraversare?
«Con il debutto a Under the radar a New York avremo sicuramente una bella visibilità. Trattandosi di un festival frequentato da operatori di tutto il mondo, ci auguriamo una lunga tournée che per ora passerà, oltre che dall’Italia, dal Vooruit di Gent e dal Festival Grec di Barcellona, nostri coproduttori. A marzo invece inizieremo a lavorare a un nuovo progetto su Sam Shepard con la scuola di teatro La Manufacture di Losanna, in cui teniamo un insegnamento dal 2014. La scuola ha grandi possibilità, sale, tecnologie. Invitano docenti di livello altissimo. L’anno scorso c’è stato Richard Maxwell, e poco dopo Milo Rau. I quindici allievi ammessi frequentano tutto l’anno i corsi regolari e poi lavorano per una settimana o due con grandi maestri. Alla fine del triennio c’è uno spettacolo di chiusura, che viene distribuito e va in tournée. Nel 2019 lo dirigeremo noi. Sarà una nuova intensa esperienza quella di lavorare con 15 giovani attori… abbiamo scelto Shepard anche di riflesso alla nostra lunga permanenza negli States: la sua scrittura asciutta e impietosa (lavoreremo su alcuni romanzi) ci affascina tantissimo. Ma ancora una volta un progetto che ci porta lontano dall’Italia…».

Visto che ormai siete in una fase di piena maturità artistica, chi sono – se ci sono – gli eredi dei Motus, in Italia e nel mondo?
«Ci fanno spesso questa domanda e ci imbarazza un po’ perché non lavoriamo per creare epigoni o scuole legate alla nostra poetica… cambiamo spessissimo metodi e linguaggi e noi stessi non abbiamo mai avuto maestri nel senso didattico del termine. Penso comunque che tutti gli attori, tecnici, assistenti che hanno lavorato con noi in questi anni porteranno una parte del nostro mondo con loro, trasformandolo e facendolo proprio. Anche la Great John Company di New York o gli studenti in Svizzera hanno scoperto qualcosa di nuovo lavorando con noi… ma noi abbiamo sempre invitato tutti a seguire la propria strada, a non tentare in alcun modo di imitarci. Non c’è nulla di più triste per me del vedere un giovane attore o coreografo “scimmiottare” modalità recitative o formali dei registi o attori di altre generazioni con cui ha lavorato. È importante seguire personalità artistiche che si amano, ma poi occorre avere la forza e il coraggio anche di metterle in discussione e separarsene».

Dopo avere contribuito a smantellare in vario modo il concetto ristretto di “identità”, qual è ora l’identità dei Motus?
«Be’, questo progetto, questo nostro continuo andare è il nostro essere. È qualcosa che non si ferma mai. Ma non è una velocità di movimento costante, è fatta di tante pause, di tante curve e strade secondarie o segrete che percorriamo per incontrare le persone e i luoghi che amiamo e con cui riusciamo a instaurare un dialogo vero, e ogni volta, durante ogni sosta, incameriamo qualcosa di nuovo che ci dà la forza e il desiderio di ripartire verso una direzione inesplorata. Il sottotitolo di Panorama è “I am the others”: ecco, questo siamo noi».

VERA BESSONE

lamama.org/panorama

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