L'Europa hopperiana saluta gli States

Rimini

BOLOGNA. Il Whitney Museum di New York – da un anno trasferitosi nella nuova sede firmata da Renzo Piano con vista sul fiume Hudson, nel Meatpacking District – ospita dal 1968 tutta l’eredità di Edward Hopper: oltre 3.000 opere tra dipinti, disegni e incisioni (grazie al lascito della vedova Josephine) del più popolare pittore americano del XX secolo. Una collezione impagabile che, di quando in quando, viaggia (in minima parte) per il mondo, toccando anche l’Italia, dove Hopper è amatissimo.


Così, dopo la grande rassegna a Milano e Roma tra il 2009 e il 2010 – 160 tele, alcune provenienti anche da altri musei – Edward Hopper (Nyack 1882 – New York 1967) arriva adesso a Bologna, in quel Palazzo Fava che già ospitò La ragazza con l’orecchino di perla (e con il seicentesco Vermeer, l’americano condivide senza dubbio l’amore per la luce e la capacità di riprodurla).
È una monografia in 60 opere, tra cui diversi schizzi preparatori; si va dagli acquerelli parigini d’inizio Novecento ad alcuni dei suoi celebri scorci americani. «Calmi, silenti, stoici, luminosi, classici», come li definì lo scrittore John Updike. E forse non c’è chi meglio di Hopper abbia saputo fotografare quelle case, quei fari, quell’assolata costa del nord est dove trascorreva le vacanze, e che è giunta a noi in tutta la sua icastica iconicità.

Non possiamo non dirci figli di Hopper, perché la sua influenza – dal cinema alla pubblicità, dalla fotografia ai fumetti – è vasta e persistente, tanto da delineare, soprattutto per noi europei, un vero e proprio “tipo” americano. Ma hopperiano è diventato davvero aggettivo universale come felliniano? Be’, la pittura – per influenza e immanenza – non è il cinema. Anche se il gigante schivo è ormai un classico, forse suo malgrado. E sono probabilmente i notturni quelli che meglio ci restituiscono l’universale americanità di Hopper: costruendo storie dal particolare al generale, l’artista ha saputo tramandarci limpide solitudini al neon, scorci urbani colmi di attesa, figurine silenti assorte davanti al loro bicchiere di birra. Quadri che a Bologna però non troveremo.

Nelle sei sezioni del percorso – seguendo un ordine sia tematico che cronologico – ci sono disegni, acquerelli, incisioni e olii. Spiccano South carolina morning del 1955, New York interior (1921), l’immagine simbolo Second story sunlight (1960) e il grande Soir bleu (lungo quasi due metri), ritratto dell’alienazione umana, realizzato a Parigi nel 1914. Ma le strade ariose, le marine, i villaggi e le colline made in Usa, nelle sontuose sale bolognesi affrescate dai Carracci, non possono esprimere tutta la loro potente vastità.


L’esposizione, curata da Barbara Haskell del Whitney in collaborazione con Luca Beatrice, resterà aperta fino al 24 luglio.


www.mostrahopper.it

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