L’Emilia-Romagna, nel cuore del sommelier di origine materana Francesco Russo, ha un posto tutto particolare. Gli anni passati a Modena alla corte di chef Massimo Bottura hanno impresso in lui profumi e sapori che ha portato con sé nella città dei sassi, dove dal 2017 ha aperto il ristorante “Dimora Ulmo” insieme agli amici e soci Michele Castelli e Virginia Caravita, conosciuti all’Osteria Francescana dove entrambi lavoravano come cuochi.
Prima di arrivare all’oggi, vorrei chiederle: come è avvenuto il suo incontro col mondo della sommellerie?
«Tutto è iniziato per un discorso che potrei dire di esigenza. A Bernalda, nel paesino in provincia di Matera dove sono nato, i miei genitori avevano una famosa trattoria che si chiamava “La Locandiera”. Sono quindi nato dentro un ristorante e mentre le mie sorelle si erano orientate alla cucina, serviva qualcuno che si curasse della sala».
Poi cosa è accaduto? L’esigenza è diventata passione?
«Ho scoperto il mondo del vino e soprattutto dei produttori, e ne sono rimasto affascinato. Così sono andato in Australia per due anni a studiare l’inglese e quando sono tornato mi sono iscritto al corso per sommelier, mentre nel frattempo aiutavo la mia famiglia con la trattoria».
E una volta ottenuto il diploma?
«Ho scoperto l’alta cucina. Il mondo della sala e del vino mi hanno portato a lavorare prima dentro il ristorante Piazza Duomo di Alba e poi all’Osteria Francescana di Bottura».
Lei è stato a Modena dal 2010 al 2012. Cosa le ha lasciato la nostra terra?
«Direi tantissimo. Lavorare con Massimo è stato stupendo, perché era faticoso, con orari lunghissimi, ma ho imparato il valore della squadra. Nonostante i turni a volte massacranti sono andato via piangendo e ogni volta che torno vado a salutarlo. Per me l’Emilia-Romagna è la regione più bella d’Italia e mi sono portato via il suo intenso calore e l’attitudine all’accoglienza. E poi il cibo, che credo si commenti da solo».
Nel 2017 ha aperto Dimora Ulmo, di cui è il direttore di sala e di cantina, insieme a due amici e colleghi. Come mai questo ritorno a casa?
«In quel periodo Matera era in grande fermento per via della nomina a Capitale europea della cultura 2019. Michele, poi, è materano come me e volevamo contribuire a portare una ristorazione maggiormente curata nella nostra terra, che ne aveva tanto bisogno».
Avete portato anche qualche tocco emiliano romagnolo?
«Assolutamente sì, anche perché Viriginia, la fidanzata di Michele, è originaria di Ferrara. Proprio l’altra sera abbiamo proposto una serata a base di cappelletti e bollito. Stupendo».
State quindi avendo un buon riscontro?
«Il progetto è sicuramente ancora giovane, ma è partito bene. Massimo mi ha sempre detto di non pensare alla cucina
fusion o ad altri strani nomi, perché secondo lui esistono solo due tipi di cucina al mondo: quella buona e quella meno buona. Ecco, noi cerchiamo di fare cucina buona».
Quante etichette avete in carta?
«Esattamente 1.059. Un terzo sono della Basilicata, mentre le altre provengono dal resto d’Italia e un po’ da tutto il mondo».
Ai giovani che vengono da lei a imparare il mestiere cosa insegna?
«Prima di tutto l’arte dell’umiltà, che non è mai abbastanza. Li formo e li aiuto a crescere, cercando di insegnare loro che in questo mestiere sono importanti due cose: lo studio e bere, bere e bere. Insomma, in una parola sola: il confronto, perché è così che nasce la cultura del vino. E con una clientela sempre più preparata ed esigente come quelle di oggi, le dico, il nostro mestiere è ancora più bello».